Sono nato nell’antiest, nell’Ovestfalia. Una madrina maga mi ha regalato la maledizione del fuso ed ho fermato il tempo ai miei diciotto anni, un giovane passato di là secoli dopo pensava bastasse baciarmi la bocca del ghiaccio la bocca   blu.                    L’incantavo cantando lenti fado il principe guardiano, le nostre nozze ieros gamos fluivano nel sogno di assomigliarci ma si sentiva il peso dell’inventare, dormivamo poco, ormai, dormivamo male. Nella mia seconda reincarnazione ero una bimba scalza, passavo giorni grondanti nei bordelli del Siam abbracciata ad una sorellina, le braccia stente unite per le mani e le teste chine, disarmate del nostro sesso ora custodia di palline da ping pong ci sentivamo scorze dure, imponenti, talee l’una dell’altra nel mondo parallelo degli alberi.  

Infatti sull’albero più alto del giardino scabro di Madame costruivamo capannelli, casoline, nicchie di foglie di banano come i nidi delle rondini e come i nidi in genere. Venivamo imbeccate dal venturone a cavallette e morbidi lombrichi e semi di girasole e semi di miglio. Bevemmo gocce di diluvio setacciate dalle foglie inclinate incrociate incurvate a doccia poi ci acchiappavano e bevemmo rhum, almeno un po’ di quello aiuta a dimenticarsi dove corra il cuore. Ma non sono andata lontano, non più lontano del nido di saliva, e mi ha portata una malattia trasformativa. A dire questo di me:stavo rimorendo.  

 Ma non mi assomigliava alcuna paura e nel dimagrire e sciogliermi, nel dolore e negli organi che si inceppavano e promettevano e mantenevano nuovi umori non mi sentivo perduta anzi mi radicavo, perdevo le cose io c’ero e facevo la storia di quello sfacelo io c’ero e qualcosa di più, c’era un progetto: la costruzione di una casetta per grilli. Al signore del cielo il mio piccolo gioco ha dato almeno mille anni.

La terza volta sono stato il ragazzo dartagnan. Un moschettiere ardito. La mia spada divertiva il vento e longilineo e biondo e azzurro cavalcavo nelle diritture raccoglievo fili d’erba giravo indenne e imperterrito. Il ragazzo più bello, tadzio delle svezie per Visconti di Venezia, uno sguardo lungo, un collo di cigno, l’efebo selvatico che non si fa toccare, briccone, monello, intenso, la terza volta sono stato sinergico, imperturbabile, splendido nelle braccia e nel torace e nelle gambe e il disegno dello zigomo dell’addome dell’inguine il sedere asciutto che accompagna la schiena senza soluzione di continuità, l’arco delle sopracciglia, le ciglia curve, la bocca disegnata in broncio aperto, il ragazzo più bello, un formidabile incarnato, capelli forti e lunghi appena dietro le orecchie ciocche per caso sull’occhio unghie pulite alte semilune bellissime mani. 

 

 

 

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