Agosto shutta via come uno sbrano
parte a palla rimorde concàvo e
agosto pena nato mi s’torce
non l’amo, non
l’amo
tirapiedi le ha prese con sè
le smorfiette bambine, agosto
sublime spezzato e munto

si spacca che ha un giunto sulle presine
si contratta stabilendo le possibili fini
s’involucra e contrae risulte pese state
infatti era estate, si nasce così
pilloli, smaestrati
con tanta volontà di forza spotica
ed invece è una fame:
l’io s’inchina a superbi scempi
e quel che gli resta, finestrada
(che è un molare di vento)
spanna, digrada. Non si è mai vista
tanta profusione di conigli e
si vorrebbe inventare qualcosa
sul pergolato delle metafore marcite.
Io, così, gli chiedo d’uscire.

Gli dico: " dove l’hai messo, e nascosto, dove
so che filava bene, dov’era di cuccia
cosa guardava per prendere il colore, so
come si chiama, come si schiava, socome
e seppellito, l’hai seppellito, giù "
e parlo troppo. E non si parla più.

Ah! Era rosso e sghignazzava, era verde e blu, fumava, era tamarro, la barba di quattro giorni, faceva l’occhiolino, balbettava, sembrava dovere scuse ma non parlava, ammiccava, su e giù coi piedi, sorrideva, sembrava gentile, sembrava docile, attenuava, faceva finta di niente, faceva niente, nien te, nella  sua  maglietta sic rossa sob veniva, si portava, con un vago gesto di pace, con un’aria smarrita da curato, con un indefinibile assaggio di tenerezza, con un’ossatura solida, con un tatuaggio sbagliato

auto da fè, pentimento e denuncia, scazziamo ancora sulle parole, la loro "etimologia", vediamo cosa vogliano dire, a te, a me, al can, ham!  mio rubicondo e mio lascivo lacrima, dove arrivavi a prenderti la mela àmela, o le fai pagare la tua rabbia, che sei salito sulla scala? perché sei alto uno e trentatre? e non si sentano chiamati in causa i nani.

Oh. Poi cambiava lo scenario e non si trattava di chiedere ma di prendere, farsi prendere e prendere un tutt’ino, chiedere non si può, puah, chiedere è sporco, il bisogno è sporco, il bisogno è merda, e quindi bisogna essere indipendenti, la bandiera stellastriscia attornierà il torace, noi sapremo comperarci le brioches, noi sapremo fare a meno dello sguardo dell’altro su noi miseri e ci pianteremo nell’acquisto di quel che può servirci.

Vediamo: un rasoio, bic, più di uno, confezione risparmio; un pacchetto di mutande, 3,4, e la schiuma. Il caricabatterie del telefonino e due pacchi di kleenex, intanto. La play station, qualche extra thief, pizza al taglio, 24 moretti. Un paio di calzoni corti. Come tornar bambino. Riparare la caldaia, come farsi caldino. Pettine?

Il mio avvocato è proprio un asino.

Appariva congruo e coerente suddividere il mondo in piani. Uno di questi avrebbe potuto rappresentare il primo, fosse possibile, pensiero e procedere per familiari gialline, incontri che confondono, gatti e cene con telegiornale. Uno di questi invece il luogo della perdita inspiegabile che appartiene certo al primo pensiero ma va a sollecitare una biforcazione e quindi uno spostamento di asse. Uno di questi ancora un tempo astratto, immobile, in secondo piano, una sfocatura sospesa immanente; ne ricevi dal viaggio notturno di dormire o nei lunghi percorsi per mare quando tieni il timone sulla nera e per aiuto due luci la verde la rossa. Uno il piano degli altri, ecco, comunque, o meglio il frattale degli altri, disposti certo su differenti multipli quasipiani.

Ma uno, il bastardo, il figlio di troia è il piano inventato.
E’ la storia, ed il ruolo, che delineano questa ambigua ma stringente superficie. Non deriva necessariamente da alcuno dei piani sin qui elencati, casomai li occupa goffamente. Ha vita propria, come una geografia, e non è in fatti molto diverso da una geografia, si svolge banalmente lungo una linea sincronica e utilizza le età come un fiume taglia la montagna e le forme come il ghiacciaio scava la morena e le forze come l’acqua scaraventa a salto.
Non ci appartiene primamente, come una geografia. Appare mascherato di un linguaggio che si può solo imparare, che non si informa, che non si deriva, che non viene mai capito, che ci ostacola, che ci sposta, che ci sotterra, che ci brucia e che ci alluvia e incenerisce, come una geologia. Non spiega nulla ma affastella. Dal suo accatastamento nascono inventari mostruosi e sottolinguaggi criptici dalle classificazioni che ne conseguono e non possiamo che puntellarci al carnevale magro pietrificati scanocchiati coralli.
Perché niente, tranne questo, ha struttura autonoma. E’ l’invenzione dell’eterno, in sé conchiusa, come una geografia.

Per diciassette volte prende il volo.
Sembra non possa fare altro che estendersi. Ma non rimane un solo
iato tra quello e il grande salto vano tanto che si è costretti e chiedersi:
perché perdi?
E’ innumerata e gracile, invece, la stretta successiva; quella che nessun prenome ostenta e che si accompagna di iniziali adatte e di racconti stretti, precisi: dove andavate?
Io so, lo so, che la bella arida ed il suo capiglio non andavano. Si sporgevano. Si mostravano.
Si possono toccare, non esistono. Hanno una loro circonferenza propria, fotografabile
e hanno colori sfumature nuance texture, perfino un campanellino adattabile all’indice sinistro ma non ci sono. Non ci sono! ti è chiaro?  Crescono dentro una bolla che li separa per sempre
da te. Da tutti i tuoi qualunque te, dalla possibilità di divenire oggetto, dal tempo, dal movimento
e se li vedi è perché sporgono, da, una, cavità, aliena.

Per come si precisava aveva carattere di disperazione pervasiva. E quindi non si precisava, ma, vedete, si manifestava cercando. Cercava, quindi potremmo dire che da qualche parte uno spazietto esisteva, a garantire un filo di seguito, di evoluzione costitutiva, a quella brutta storia.
Ci si soffoca e si piange, non si vede più nulla. Ha qualcosa di un pre-marasma, il confino quantitativo dell’esplosione delle ghiandole, dei muscoli, dell’urlo nella pancia, dello serrarsi della gola, dello straripamento, della perdita di ogni tutto il calore che c’è; dentro a fuori, poi dentro niente, poi niente.
La perdita di ogni speranza deve assomigliare a questa cosa, e si sta parlando di un solo modulo esistentivo ma la perdita di speranza definitiva, che potremo ritrovare sicuramente altrove.
Che; qui pare essere la sporcatura dell’invincibile desiderio di ricongiungimento ad una parte sentita come ancora-sé. Questo spiegherebbe i sintomi della perdita di calore e del profondo vuoto oscillante poi fisso, anche se la perdita definitiva di un oggetto primario  potrebbe benissimo dare lo stesso risultato.
Quindi piangeremo ancora.

Di solito c’è da ricordare il nome di una coppia. Nemorino. Cathie. Sono i guardiani della porta.

Tutto quello che si svolge successivamente è 1) introdotto da un angelo 2) commentato da un coro 3) sputtanato da una scimmia. Ma non è chiaro come si presenti a noi il gatto dai 72 gilet.

Io sostengo si tratti di uno scherzo della fantasia e mi guardo bene dal dar credito a certi miagolii, soprattutto molto presto di mattina e a bottiglia vuota.

Ma c’è una luce perversa nel sottoscala che conduce e non attraverso mezzo sogno; e c’è il gatto mammone -pensa te- che mi guarda, gioca con la cordina e fa il pane al maglione. Gotico.

Proprio sotto la lampada spenta.

Del bambino non chiedetemi niente, non penso sia stato mangiato. Bimbi belli così così così non li mangiano i gatti o le primavere, stanno seduti sui gradini delle porte delle strade dei paesini delle isole del mondo a tirare sassi ai passanti per lì.

A volte li mancano.

Cinquine d’opinione, selette nel cinguettio. Sbreghi che dicano dove sei come. Io so perché ti rintraccio nel suono che espone, nella scritta sberlata. L’antipatia degli aforismi, per quanto…
Faceva la Gestante selezioni d’iscrizione alla sua vita, definitorie. Era il 1994, anno delle ultime interviste a Popper Karl.

Mario: amava vomitare subito.
Giovanni: ora momenti di noia.
Ivo: dire tutto (subito).
Chiara: ancora chiusa nell’armadio.
Charles: attorno ad una lampada.
Roch: poca paura di morire.
Olga: distese sulla moquette con poca luce.
Hoa: un forte odore di collant.
Paola: una bocca calma e razionale.
Corrado: la sciarpa nera.
Monica: la bellezza al dolore.
Katia: il "migliore dei mondi".
Giangi: il migliore degli uomini.
Ester: l’esperta.
Dario: amava molto di quello che amo io.
Tiziano: niente baci dal treno.
Aline: massiccia straniera.
Paul: lo streap nei locali per l’eroina.
Daniel: l’ammaliatore-stregone.
Michel: pop corn, frites e videocassette.
Sara: sottomessa testarda.
Elisabeth: quei capi particolari che amava mettere l’estate.
Aline: minutissimi french-kisses.
Yannik: nero come l’anarchia.
André: "je t’aime, mon bebè".
Tiphayne: le rosse sudano molto.
Sylvie: la reazione all’ateismo.
Marc: Dio?
Yvan: l’altalena nel giardino chiuso.
Beatrice: un seno sotto il kimono.
Rosa: le piace lavorare perché il tutto funzioni.
Matteo: un basso alla melassa.
Piero: rigidamente nel giusto.
Marco: non gli piacciono i funghi.
Marina: amore malattia.
Claudia: il piccolo ammiraglio scuro.
Massimo: vuole una morbidadonna da avvolgere.
Stefano: razional zen.
Bianca: andava ad imparare la cucina da una suora.
Francesca: irreprensibile, torbido, superbo amore.
Orazio: un meticoloso freddo vi ascolta.
Stefano: nelle nuvole, sugli specchi, ma per terra.
Roberta: opportunisticamente sua madre.
Lucia: ama i cagnetti che la portano per Sandrà.
Paolo: no future for the future.
Stella: troppo l’amore per il cielo, o poco per la terra?
Luisa: i profumi amari ed i frutti secchi.
Stefano: tanti amici, poco importa chi.
Paolo: madonna eroina e la sua poliedrica scorta.
Paola: le vie del signore portano solo lì.
Elisa: dirompente malinconia che squilla.
Sonia: il progetto di una donna.
Sabrina: il gran seno di una paperottola fragrante.
Barbara: somatizzazione longilinea.
Silvana: grandi passeggiate in boschi con folletti.
Andrea: folletto adulto tagliaboschi.
Gianpietro: romantico e parolacce.
Mario: la porta sempre aperta.
Davide: la porta sempre chiusa.
Rim: la gatta autonoma.
Marina: una forza reattiva.
Lorraine: la più convincente risata d’America.
Niki: colorato bozzolo biondo.
Chicco: dove finiscono le sue dita inizia una chit…
Mario: un cane sciolto? o un lupo?
Sylvain: cosa c’era dietro tutto quel silenzio.
Xavier: tocca tutto. E’ lì per te.
J.Francois: pittore, i frigoriferi portano sfiga.
Bixio: storie di riconoscenza.
Paola: lo yogurt solo nei vasetti di vetro.
Maurizio: le sue cose vanno al posto giusto. Lasciate.
Gaia: pim! pum! pam!
Pale: la gatta affettuosa e bianca e verde.
Dina: sorellastra intercontinentale.
Claude-Aline: la sua emicrania, ed il parlar piano.
Alessandra: la sua retina, ed il parlar piano.
Maddalena: da sola con la schizofrenia.
Silvana: fragilissimo acciaio bagnato nell’oro.
Renata: la voce della paranoia.
Luigi: l’immensità gialla di un buio cortile.
Paolo: il mio culo.
Francesco: bellissimo capacazz’.
Paola: i suoi vestiti.
Luciana: ora sarà latte, ma prima era fluido do coscienza.
Domenico: capolavoro d’intelligente adattabilità.
Cesare: il sadico mondo di microsoftword.
Laika: il neronero cane canguro.
Lucia: un brivido per ogni bigliettino.
Diana: corse in tondo nel garage, peste!
Nina: un lento lasciarsi consumare, vinta la vita.
Silvio: minuscolo tirasubrodo, brillante lavoraferro.
Gin: diffido delle tue idee chiare.
Nella: ingarbugliata donnina di cuori.
Marco: forse non ti ha fatto bene battere la testa.
Anna: muticina e bella quanto mai.
Stefano: dai cavalli all’insolvenza.
Roberto: una precisa articolazione di bisogni.
Bepino: l’orso buono.
Vito: scherzi dell’immaginazione.
Pia: pulcino? chioccia? klee?


                                                             

Perché quel mercato di Trichy non ti piacque.

 

 

Si ha dell’India un’idea unitaria. Lungo gangi folle chiaronude bagnano, cremano, mandano barchette fiorite d’arancio agli dei. Nelle città vacche magre bloccano il traffico e tutti si muovono comunque, piano, per evitarle. Matrimoni complicati dove sposi divinati fanno innumerevoli giri attorno ad un altare semplice, senza dio specifico , e la folla li applaude grata dello sforzo in denaro, se non altro. Lunghe fogne all’aperto vicino a villaggi perfetti, sabbiosi, scopati, e la casa-capanna con un rangolo fatto col gesso fino, ogni mattina, davanti alla porta.
Ti scappelli davanti ad ogni ganesha unto e fiorito trovato nei buchi delle mura attorno alla pensione e le scimmie del tempio alto di Brahama le capisci e le coccoli anche se non fanno che tirarti sassi. E la vita dei ricottari, notte e giorno sul mezzo pagato caro, e le famiglie intere pulitissime che a Madras dormono sulle strade e si alzano con l’alba senza fare una piega di sari e la frotta di mendicanti nobilitati che ti scorre addosso e gli autobus strapieni senza nessuno che si tocca.
Nelle piscine dei bramini ti sei seduto sui gradini a fotografare l’acqua stagna ed i colori più brillanti, quei fucsia, quegli oro, quei celesti, gialli cromo, quei bianchi e lunghe barbe su corpi magri, loro, color sole bruciato. Sotto chioschetti intarsiati qualcuno pregava nella posizione del loto. Ti hanno venduto vasetti pieni di polverine rosse e ti sei fatto segnare sulla fronte davanti a collane di fiori arancio, bastoncini d’incenso accesi su piatti di metallo.
Tutto come sapevi.
E la gentilezza di quei baffuti bruni nel porgerti il tè al latte, bollente, facendolo cadere da cinquanta centimetri più volte per raffreddarlo e mangiare il thali in fila come in mensa aziendale, rigorosamente con la mano destra.
Tutto come detto.
Il sarto che ti regala il rocchetto, nessuno che ti ruba lo zaino depositato nell’albergo delle piante giganti, la sfrontatezza dei bambini nelle stazioni accanto alle fabbricatrici di ghirlande di fiori, gli ingegneri della Tata nel giardino di Cochin. Lenti sguardi alle distese di sabbia e cespugli e pietre rovesciate a Mammallapuram del tempio del mare, Vishnu è li che ti guarda, sovrano, in una qualsiasi delle sue reincarnazioni e scolpiscono il marmo a sostituire parti disfatte.
E perché quel mercato di Trichy non ti piacque?
Non era buio, ricordo, il pomeriggio insolentemente cominciava, dopo le ore calde, molto prima del tramonto e si andava per le vie della città affollata candidi di turismo ed allegri delle birre che sapevamo dove comprare. Lungo le strade c’era quel primo odore di notte-prima mattina del viaggio dall’aeroporto fino a Madras ma in più l’indolenza crepitante del mercificare pomeridiano. Siamo arrivati a quel quadrato recintato con un’ entrata ed un’uscita, coperto da tendoni, il mercato vivace di sogni ed esperienze. Hai visto un pollo morto, certo. Ma non capivo. Ero nel posto degli uomini, quelli che lì vivono. Il mercato era un mercato di carne. C’era poca gente, c’era un vuoto. Ma i soliti banchi anche sporchi, penso io, la solita semplice proposta dei mercati, il solito interessato studiarti mentre passi, cosa cambia se davanti vedi limoni e pomodori?
Ma tu dici che la gente ci guardava malignamente, che stavano chiudendo, che qualcuno mi ha lanciato un topo morto tra le gambe. Io vedevo i soliti. Sorrisi e no apparecchiati per lo scambio. Poche rupie logore che scorrono tra mani. Labirinto d ‘intrighi e vita che scorre. Un entusiasmo magico indifferente a me.
Ma perché quel mercato a Trichy non ti piacque, solo Shiva lo sa.




Non è per nulla evidente in che modo si verrà a sapere che sta finendo la notte.
Se finisce a volte finisce e basta, lascia un po’ di sapore fenico in bocca e quello che doveva essere un sogno o un sonno si macera nell’infilata luce, sopra la sedia del vestirsi.
Quel giorno ritrovato, a Gertrude che lo guardò, non sembra la vita, ma la vita è. Sbroccata bastarda e pedissequa, priva di fantasia finquando si strattona, "tra il Giornale ed il gilé".
La vita (quella) è, gentilona ed arresa ma manifestamente tollerabile, e quindi pare pure bello cominciare qualcosa, o continuarlo magari un po’ pentendosi di averlo incominciato, finirlo; o non pensarci, anche in questo c’è una certa intelligenza fertile, perché la vita è tanto fertile quanto può esserlo un’entità che sa distruggere, semi-distruggere ed eternare.

Ma qualche volta la notte annuncia il suo esito. Lo vediamo nei pensieri del secondo dormiveglia che ci eravamo spostati. Le connessioni non funzionano e la trama qua e là si spacca a restituirci un coso opaco e non per questo confortevole. Gertrude che se ne accorse dirà del riposizionamento di certe foto nei punti sbagliati, come se l’album non avesse concretezza d’insieme: e molto materiale derivare da sensazioni cenestesiche e molti suoni partire a diaframma per passare alla testa dalla nuca, dietro.
Non sempre; come in certe favole che non fanno dormire qualche cosa mozzava, in altri risvegli annunciati, e qualche cosa veniva mozzato. O dimagriva fino a quasi scomparire. O, più frequentemente secondo noi, costruiva casipole che venivano incendiate d’ufficio.

Capita poi che la notte non finisca. E Gertrude che nella notte rimase non ne pianse, ché non si piange nella notte che non sveglia. Capita, è vero, di ritrovarsi sperduti in stanze nuove, nell’angolo che fa  l’armadio con il muro con l’altro muro vicino alla porta, e non vederci niente ed avere la paura ed il terrore della mancanza di tutto,  bisogna venire destati da rumori importuni. Ma a Gertrude che è nella notte non sveglia, e non piange, e non si alza, ed è come se ruotasse attorno ad una stella antica, in un’orbita, in una lunga distesa, in una traiettoria ondivaga, in un bel concavo, sul linoleum, in un moto uniforme, sul bordo di una bella foglia, nell’insenatura, nel grande mare, attorno ad una piccola mela, nel flusso di un atrio, nel labbro inferiore preteso

Suonelli, gingillini.
Una crescita ardente.
Dove andavano dunque i bambini?

Ripetizioni sincere e
santi numi.
Ridiventavano dentr’in fiore sbocci.

Ah l’avessi saputo che
non c’entrava più
me ne sarei staccato liberamente

e l’isola epossidica de
divenire pertinente sente
un grande desiderio in contro.

Ma l’isola l’isola
l’isola
incroccata nell’antro furente

quanti anni diceva che aveva
l’isola
nel sacrato continente

dopodiché se ne andava
a firmare le carte e a deporre
niente niente

un po’ di me?
Paciugo inglorioso
asfittica e pastoia

dente di cane e dente
di leone.
E latte di gallina, toh

che si sappia! l’arlecchina
blu sorella e musa del
bel poeta muto

le giunga al cuore l’urto.