Aveva fatto tutto come si deve e per questo riteneva di dovere pretendere questo anche dagli altri.
Versava il soave gini nelle flutes come se non dovesse guardare in faccia nessuno mentre.
Schiacciava l’acceleratore con tutti quanti sopra come a cercar di dimostrare che le cose si facevano comunque.
Ripeteva le stesse frasi del padre e del marito e della madre e della sorella, indifferentemente.
Ripeteva le stesse frasi della moglie del padre dello zio e della madre di lui, quello che c’era in casa.
Ripeteva sorridendo, senza coscienza.
Ripeteva amabilmente, sbocconcellando.
Aveva fatto tutto proprio, non mancava quasi niente.
C’era una sorta di perfezione anoressica nella sua ingenuità guarnita.
Sapeva conquistarti con la grazia dell’avvicinamento per poi a piè pari saltarti via d’un boccone.
Corrispondevano silenzi soppesati e buone maniere in uso.
La vita era un affresco nel quale casomai andava aggiunto qualche personaggio secondario.
Non c’era competenza che potesse inficiare il preciso ordine delle cose.
Mostrare le sue parti poteva significare la loro cancellazione semidefinitiva.
Nel mondo alto e lungo, alto e lungo, grosso e cincio, stravasato, scioglieva.
Passivo aggressivo rimaneva in piedi davanti a quando tutti andavano.
Si ricordava sempre di ringraziare e ti faceva dimenticare.
Di esserti preoccupata per lei, povero tristo giglio.

Precedo te nel posto blu delle listarelle
farà fiato la lettera posta in predestina
e predestina con usura, con usura dira
Pound, bel Pound bianca corona stelle
dice Pound, bel Pound di giga-gigaEzre
fossa discanto mangiator rovina crebbe.
Ora non ci rodiamo più ma sale una fina
insipienza modica che si manifesterebbe
nelle ritorsioni metodiche di dottrina sic
una fina fina dottrina sic non vi parrà vi-
cina, essa infatti salirebbe, scala posta,
fin su dove solgon stare buone recchie.

Facciamo finta tutti che questo bene si
slanci unissono e svelto verso noi si sta
e decidiamo insieme quante siano intere
le volte che la cosa capovolta davanzan-
te, se possa piangere anche lei del nos-
tro sconfortato ammore, ci costa carolui.
Ora ritorniamo alla bomba precipuamente
dichiarata, cioè molto semplice facciamo
analisi senziente ed assertiva dello stato
della casa, e del mondo, e del momento:
che ci insegnarono come l’indimenticata
vera, che corrispose molto meno di metà.

E’ stato Mauro a farci leggere i fratelli Karamazov, sostenendo fossero superiori ai Demoni. Tanti libri sono, dalla scena originaria si arriva ad Aleksej ed al suo starec la purezza dell’abbandono religioso dentro la regola. Dmitrij, poi, il fuori di testa e d’eredità, turbolento e carnale. Ed infine, nell’algebra relazionale interscambiata delle due donne centrate, Katerina e Grusen’ka (interpretata stranamente da Lea Massari nello sceneggiato televisivo dei tempi coraggiosi), l’enigma di Ivan, la sua problematicità.

Freud considera questo romanzo uno dei maggiori (lui in realtà dice "il più grandioso che mai sia stato scritto" ) e lo userà per l’esplicitazione di riflessioni importanti sul parricidio. Moravia sostiene si tratti di un romanzo troppo simmetrico, e in questo probabilmente ravvisa l’attenta suddivisione dei ruoli, la sequenza costretta che fomenta la suspance. Noi stiamo aspettando, con violenza, che Ivan scagioni il fratello senza colpevolizzarsi.

Visto che questo non accadrà, perché i russi, e con loro il maestro Dostoev, a tragedia sono assimilabili ai greci dell’Eschilo, ci stiamo rassegnando a vederlo partire per la Siberia, l’Ivan senza Dio. E ci chiediamo quanta bellezza sospesa ci fosse in più nei Demoni, imperfetti, anteriori, dove il processo è solo un’appendice e l’incendio e la perdita del padre sciocco e la presa per il naso e la coscienza di peccato ed il matrimonio impossibile rendevano Lui, il ragazzo Alessandro, una specie di antieroe completo, tutto tutto teso a diventare una cosa incomprensibile ma dovuta, coerente, anarchica soda.

Sull’anarchia che non piace, quella lì, del 1870 potrebbe essere, col geniale e sensibile Dostoev potremmo parlare a lungo. Lungo progetto aveva (l’anarchia) a fronte dei contendenti addetti alle dittature. Sembrava messa lì apposta a dire " muso rotto, non mi metti sotto". Non credo si aspettasse i gulag (Dostoev), anzi forse li avrebbe capiti, zar per zar, Siberia per Siberia…ma no. Non avrebbe capito la mancanza dell’elemento popolare e della sua religione complicata. Ma  chi è più violento, Marx applicato che mette in riga economica o la bomba anarchica? Nei Demoni il socialismo è ancora un’idea lontana ma non prende poi il corpo sbagliato (chi ne ha paura, chi ci ride), e questo corpo è temuto come perdita di possesso mistico.

E’ stato Mauro a farci arrivare fin qui, e anche Irazoqui, amico del russo che pure noi amiamo, ci piace, ecco, il suo sguardo, lo ripetiamo, lungo. Ci piace il suo senno dilatato e sezionato che nella narrazione riesce a creare personaggi intatti, per quanto troppo velocemente convertibili, meno nei Demoni, vi dico! Ci si converte meno in quest’opera mezzana, è la forza dell’età media, allora no! Ci piace comune, comune denominatore, il capire il tempo d’uomo e la lentezza con cui si dipana la principale preoccupazione. E delle donne il mai rivelato mistero, la loro sospensione e la dura presenza petulante delle domestiche e delle salottiere, equiparate. E Liza…

Ma per uscire di qui io pensavo: dopo tutte queste belle riflessioni sul dio e sui padri morti dei figli mezzani, perché non passare alla maga Plath?
Ella compone solide dissezioni dell’animo e svela l’ossa. Tutti si uccidono attorno a lei, lei dà l’esempio, ma a questa morte è data ampia giustificazione, come un tappetino, che anche Fedor conosce, come un tappetino che accolga. Nella capacità che la poetessa ha di connettere con la vita le perdite e i fallimenti.

Ah! Perché questo post voleva trattare i fallimenti, ora ci sovveniamo, le cose che vengono irrimediabilmente perse e abbassate, il suicidio attivo e quello indotto, ma per dire: potrebbe il fallimento essere un risultato, e magari essere visto in ottica evolutiva? Impiccàti certo non si va da nessuna parte, mi piace Deleuze quando parla della morte, ma intendo: evolutiva in quanto sola possibile deriva d’incroci di vanità sterili, elemento vivificante basso della stonatura di costruzioni balorde e svuotanti? Il fallimento pre-suicidario, ecco, potrebbe essere la sola base per un’esistenza vera, e se nel suicidio c’è un fallimento potrebbe darsi una delle cose migliori, nel gesto e nell’intensità dello sparire, che quel tipo di esistenza può.

Così si ragionava pensando ai demoni e ai fratelli, alla siberia e a sylvia e a nicholas e al mondo che continuamente s’inventa, con le sue regole, il suo assurdo, le sue bugie attoriali, i suoi papi e la sua vanità. Perché il mondo continuamente s’inventa, si spacca, si riamalgama e si fa. E la storia e le cose che parlano attorno a noi dicono questo, dicono:, guarda cosa c’è scritto, guarda cosa s’è inventato questo in complicazione irresistibile. Vedi dove ha toccato che è importante e vedi dove ha lavorato in accumulo di gestione, potere per potere, mano per mano. Siamo rimasti ingarbugliati in un dettato.

Guarda dove la storia bluffa. E dove truffa. Guarda Dostoevskij quando si impiglia, uno dei migliori, e guarda la Sylvia, la sua carne indocile, la sua incapacità depressiva che arriva a dirti tutto, guarda come tutto è da ricomporre e svincolare, e come ciò che non si svincola sia altro da quello che sembrava l’altare. Utilìzzati. Diventa il pensiero che si assume, si investiga e si perdona. E deponilo, da qualche qualunque parte, perché è comunque sempre piccolo e bisognoso.
Tieni unite le parti.

Siamo:

. dipendenti dall’elettricità, questo sempre più, nelle nostre orge comunicative serali per lo più, la televisione accesa ma non la guardiamo, vengono piuttosto ascoltati i sussulti e le urlatine del di turno, preferibilmente su rai tre che Ghezzi l’angelo non posti qualche , ma quasi sempre, sua bellabella cosa e purtroppo, olè, non la sentiamo mai perché i giapponesi, ad esempio, parlano poco, parlano piano.

. abbastanza cinci, bottiglietta di custoza al davanzale, ma mai cinci eccessivamente, di solito per lo più, va mantenuta media un’alcolemia standard (i corpi mammillari ringraziano) e quindi abbiamo a creare quest’ambiente fluido dove tastiera scorre e dati attorno accorrono, innamorati di una specie di sobrietà.

. sicuri che sia notte fonda, che praticamente è il mattino, e che tutti dormano, la qualunque dorma, le segreterie mute, i gatti con poche idee alimentari, ma pure, chessò, il commercialista deve dormire, e anche la zia, e la Sabri, e la statistica , e i carabinieri, e l’ufficio dell’agsm, e il premio letterario e la vicina, e il ladro e Lorenzo, soprattutto.

. accesi da una voglia frequente di fare uscire una specie di lupo dalla favola, vermetto dalla mela, gemmetta dal tronco solido, reazione chimica dal bicarbonato col limone, lievitazione dalla torta peracacao, penetrazione dell’occlusione dei tubi del bagno, trovare le parole, portare le parole, risolvere i problemi, pianificare gli ingorghi, controllare disordini, mettere i punti insieme eccetera.

. arresi alla complicazione costante di ogni cosa facciamo, e lunghe lacrime interne sui fallimenti del lavoro distensivo, della proposta cosciente, dell’utilizzo dei saperi e delle qualità, porchissima la frase lasciva che uscirebbe se volessimo, lungamente lacrimosi e incupiti da tutto che non si fa fare, puliamo il fornelletto con quaranta fogli di carta regina perché è lontana da noi l’esperienza dell’olio ma, attenzione, ce l’avessimo, la riporteremmo comunque indietro, nella sfera delle cose che si credono sapute e non ci tangono più mentre, tac, arriva l’untore che non ti aspetti.

. delusi dal ripetersi degli errori nelle esperienze ed ancora non convinti di niente, per come fare a correggerle, per cosa dire nel vederli, su cosa salire per non bagnarci le scarpe; vorremmo trascendere e non trascendiamo, non ci sentiamo trascendere almeno, e non trascendiamo credi, a ritrovarci qui nelle mattine insonni sghembi e comunque costruiti nel film che ci racconta.

. posiamo, nella gara dell’essere, quel personaggio e la sua maschera, sono-io, ma adesso quasi privi di dimensione condivisa, posiamo per noi, per la nostra bella faccia nella giostra di esistere e la quotidianità prende uno spazio grande, ci consola e ci risponde ma i sogni del sonno premono comunque, vogliono sfondare un muro inesistente, stanno lì a raccontare un’altra storia che poi diventa storia della storia immanente, e tutto ‘sto casino, Gerina, fai due disegni o tre.

. stanchi, un filo stanchi, di tutto questo andare e della meraviglia della piantina e del sapere morbido di aprire chiavistelli: sempre una stessa premessa esce dalle soluzioni, dai libri e dai colori, scintilla e fumo dei mercoledì.

Seguendo il metodo dell’indagine umanistica senza appigli filologici esibiti, inducendoli insomma:
il maschile e il femminile assillanti ma, giocoforza, elementi imprescindibili di distinzione descriviamo. Da un disegno su compensato di Gerina emergono forme di interesse. Si tratta di una figura ibrida, due corpi si intersecano uniti alla parte laterale del bacino, un gemellaggio siamese basso. I caratteri sessuali secondari non corrispondono ai primari.
E di questi rileviamo elementi formali connotanti. La figura di sesso femminile ha caratteristiche rapportabili ad una scissione verticale: l’ovale delle grandi labbra viene "tagliato" in due dalla linea che, intrinsecamente morfologica, le definisce: il taglio va dall’alto al basso. Si tratta di una scissione di parte intera che toglie elementi di distribuzione alle rappresentanze dell’insieme, che le divide dove tutte, comunque, rimangono, dequantificate. Se volessimo parlare della distinzione sessuale come di una patologia faremmo un parallelo con i disturbi di personalità, la scissione verticale permette la coscienza di parti rimaste e costituenti una sorta di personalità "intera" e non fa vedere invece le parti sottratte a questa.
La figura di sesso maschile è invece portatrice di una scissione orizzontale: il taglio è all’altezza del glande. (Gerina non prende in considerazione i corpi cavernosi, così come non ha preso in considerazione la clitoride e, perchè no, le ghiandole di Bartolini, anche se ha presenti questi dati scientifici. Sembra che i disegni dei ragazzini sui muri abbiano connotati di realtà superiori alle autopsie). La scissione orizzontale è la scissione schizoide: le parti restano intere ma inesorabilmente distaccate dal sé, quindi il grumo narcisista non prende contatto con la possibile parte evoluta ed il suo linguaggio codificato.
Dalla disamina del femminile in quanto disturbo di personalità e del maschile in quanto disturbo narcisistico ci piacerebbe arrivare ad una possibile analisi del fenomeno guerra (vedi patologia dei rapporti), e com’è che invece ci viene da ridere?

Non si riesce a pulire niente. Gli angoli sono troppo lontani e con la ramazza non si toglie bene dagli angoli. E’ una fatica terrificante, il braccio non ci arriva come dovrebbe per fare un lavoro come si deve, la testa deve venire praticamente conficcata nello spazio minimo del mobile che contiene il lavello. Tutto quel nero di polvere e residui di chissàcche impantanato dall’acqua che talvolta cade nei giorni in cui non si pensa a pulire perché c’è altro: abbiamo il prodotto, vero, ma inclinate prone distese sul fianco il beccuccio s’ingorga, lo schizzo non esce.
Non si riesce a pulire niente. Una claustrofobia chimica mentre con il corpo provi ad arrivarci e la testa è sotto con te. In queste immersioni detestate, nello sforzo, nel premere, lo straccetto sporco risporca. Ne dovresti cambiare almeno tre, quello che toglie il grosso, quello che assorbe, quello che risciacqua, quello che asciuga. Quattro, toh. A chi piaceva questa cosa che ora perfino vomito, con il cardias ribaltato e i tessutini esofagei che fan quel che si può in ambiente acido?
A Frieda, ecco, a Frieda piaceva. Adesso la cerco, quella porca serva.

La cerco nel Castello. Ma è perduta. Kafka la continua a nominare, è lei che blocca K. nella sua espansione prima con l’amore sul pavimento, sulle pozzette di birra. Sostanzialmente è quella che gli apre il mondo evolutivo chiudendoglielo, si riconosce in lei quasi da subito e nella ragazza che passa dalla stalla all’osteria rintraccia l’ambizione al successo che gli è propria ma la disconosce alla prima abiura ("Sono con l’agrimensore!") perchè amare lei che "lo seguirebbe dovunque" significa fermarsi nel mondo minimo, quello che fanno tutti e quello in cui nessuno cresce. E strana legge del padre.
Insomma, Frieda continua a pulire, rassettare, combinare, lo fa gratis e lo fa pagata, forza lavoro invincibile e senza nome, che sistema tutto proprio; abbiamo le mansioni del disbrigo e dell’aggancio, della rifinitura e del sollevamento, del rendere praticabile. La preparazione al lavoro/bisogno dell’altro e l’asporto della lordura derivata.
Con allegria. Ma la Frieda del villaggio del caposezione Klamm, occhi di padrona, mi sfugge e non trovo in lei il piacere nell’umiliazione che cercavo. Lei è la figlietta dell’ostessa, vicedonna di capo. Associo in continuazione con Alexanderplatz (e ti piaceva spolverare, fare i letti poi restartene in disparte come vera principessa prigioniera del suo film, e aspetti all’angolo con Marlene…) e non mi risolvo.

Invece parlano l’ago e il coltello:





Da parte a parte. E parte:

prendono steli metallici

i manovali del cantiere, e le sveltine

della manovia, alle macchine

o chinati su arrotanti

ruote abrasive

e nelle forgie e nelle acciaierie

costruiscono attrezzi.

Le loro punte hanno voluto

cesellare il mondo, hanno

cercato dove poterlo trovare che non fosse

solo "quanto gli saltasse addosso"

e una sospensione.

Le loro punte.

Una sospensione.

(Macellaia delle primule

una forbice nelle tue mani

regalo di inverni scontenti;

non lascerò mai una forbice nelle tue

mani tristissime fredde.

Piene d’acqua ritenuta e sconce

sbattute sui tavoli ad uccidere mosche

con l’aiuto dell’anello migliore)

invece vedi:

il taglio, e quindi la sezione.

Quella dell’ago è rotonda

e Santa Vanna va in cerca

del filo giusto

per un’imbastitura prima.

Ha gli occhiali sul naso, il metro

sulla spalla, Mista Sartina

tiene l’attrezzo

fra il pollice e l’indice

a secchi scatti di polso

lo infila e lo riprende

come un discorso.

Il suo ago parlante

riesce a fabbricare orli

e unisce due punti con uno.

(Poi l’Annachiara è tornata

e aveva un coltello insanguinato

-una scuoiatura, un sacrificio sull’aia-

per quanto tremendo, tremendo

noi, prossime, l’abbiamo lavato)



Preghiera affinché Alain mi perdoni.

Lo so, quel prisma. Ti ho detto che era una follia da vecchio hippie, in pratica.
Ti ho detto di mettere i piedi per terra, Alain nel volo del signore, volto buono, vai a giocare a golf col tuo analista. Dura sono stata dura come la pietra, abbasso al misticismo sdrucciolo di quel pensiero debole-dominante.
Il punto era che quel prisma era un regalo. A rifrangere le luce nel suo spettro, molto semplice.
Ce l’avevo con l’Elisabeth, io, nuova convertita, ce l’avevo con l’Helène, io, folle buttata al cielo. Con tutta quell’irrazionalità risorgente che vedevo leggera leggera, lino crespo a fior di moda. Ce l’avevo.
Il punto era che quel prisma era respiro, e contatto, e centramento, e frattura, e stimolo e vento.
Troppo giovane, anch’io, nel mio fissare chiodi. E forse debole tu, mi pareva di rafforzarti con la contraddizione, col voto contro, con le logiche dei cardini.
Alain come la polvere che ruota in acqua in vortice. Alain rapito dal trend. Insettino mutevole.
Ed ero io, io, la polvere e l’insetto, la barchina di carta che finisce nel rigagnolo, temevo, vedi, questo, "sciences pures et de la santé", cose solide intendo, per sfuggire al ruggito dell’incomprensibile. Disegno.

Alain, perdona. Oggi ho preso in mano il tuo regalo prisma, che è nella mia vetrina, davanti. Tra i mille oggetti del comunque mondo dal quale non mi stacco. Avevo una tristezza cattiva addosso, il concetto di utilità, vedi, quello che serve, quello che aiuta, cos’è? E perché questo bisogno, che poi è una cosa interna, quando tutto resta irraggiungibile e discosto, impossibile a dirsi, e la risposta mia semi-paralisi, vado a giocare a golf con il mio analista? Insomma: con il tuo prisma sono usciti tutti i colori, preso raro il sole di fuori.
Perdono Alain, le parole bastarde della giovanetta prima falle suonare diverse, dai.
Fammi sorridere perdio perbuio,
gemello arcobaleno,
ti prego

ti prego.

Una bambina, tralalà, corre si spinge si volta, vedi un po’, s’arrota bisticcia tra sale, ah!, ed eccola là.
Fatina millimetro, un filo sboccia. Ma cade.
Un aereo per arrivare dalla mamma. Le vien da piangere, come ritornare fin dove partiva (dalle quattro strade) e come ritovare quel cenno capo amore e come ristabilire il potere che pareva immenso quando decideva di an-dar-se-ne con l’omone del paese più distante che la aspettava sotto la porta la sera perché, si sa, sotto le porte di sera appaiono i fantasmi degli anni belli e del sorriso tramortente degli anni belli i turbamenti?
Una bambina, tralalà.
E una vecchina, eccola qua.
Stampata sulla faccia la smorfia dell’intreccio sospeso e grave di un miracolo scampato, sdentato e largo una grande sconfitta, e, sai, le poche cose solide della vitta. Che sono: gli altri che mi guardano mentre faccio qualcosa a caso, la calma ed il calore e la tranquillità di un divano-letto, la tenebra pulsante della notte che viene, un mattino inetto. L’uomo del sogno di ieri ha preso la via delle fiabe coi suoi figli caproni caproni, ci vuole un ospedale.
Questo grande corpo. Farlo amare da una radiografia, una cistografia, una flebo, bisogno di grande cura grande corpo ha.
Vieni ad amare la grande madre deturpata nuovo mascherato figlio apparente e portale due fiori, un pensierino, un frutto, mentre le stai vicino e non vi dite niente, un seme, un giornaletto, una camicia rosa, a guardare fuori dalla finestra del quarto piano il fiume scorrere, un cilicio, un rosario, una medaglietta o uno scialle a maglia preparato con il filo delle lane di tua moglie.
Una moglina, dritta su per il cielo pulsante, con i suoi desideri esasperanti nella collezione dei dolori e le  pretese incapibili come per le tende, la domenica, le visite, per l’attenzione e l’armadio. Il suo portare tutto ai riti di famiglia e cimitero.
Una moglina, tralalà, corre si spinge si volta, vedi un po’, s’arrota bisticcia tra sale, ah!, ed eccola là.
Fatina millimetro, un filo sboccia. Ma cade.

Tre cose che so del patto col diavolo.





Un posto fermo, disabitato.

Rapporti con gli oggetti univoci.

Tutto pulito, al suo posto, fissato.

Mettere ogni cosa dove va.

Forme sicure, squadrate, finite.

Il tempo bloccato è dentro quello spazio chiuso.

Mai un solo pezzetto di cenere sul tavolo.

Un posto fermo, disabitato.

Rapporti con gli oggetti sicuri.

Nessun altro.

Movimento lineare uniforme verso il passato.

Fotografie (immagini fissate).

Contatto con cose lisce, ordine, ordine.

Emerge la dentellatura incollata del pezzo del vecchio quaderno.

E così la posso controllare, vedi che non mi disturba.

C’è solo lei, vagamente frattale, a dare apparente confusione.

Ma sono nel posto fermo, disabitato.

Sono nel mondo che non si muove.

Rallentata, ho pudore ad inserirmi in quel silenzio.

Non voglio fare rumore.

La punta dell’extra-fine ne fa già uno suo, esorbitante.

La carta che dà quello sfregolìo sensuale è già troppo.

Il minimo input risulta scandaloso, immane.

Sono nel mondo medio, semifermo.

Quindi davvero finito.

Sono sotto l’universo campana.

Tirare fuori le sigarette dal pacchetto rende gli estremi.

Troppi materiali diversi che si toccano.

Adesso so cosa succederà, tremo al pensarci.

Un rude sfregamento sulla silice.

Di legno squadrato e pallette blu, visione, zolfo.

Un odore acuto, marcito, molesto, gravido.

Quella cosa ficcata nelle labbra, discontinuamente collose.

Un incendio rosso e nero, trattenuto sopra l’orletto.

L’odore buono della combustione, ossigeno e reazione.

Miliardi di molecole festanti.

Io che mi avveleno.

Il cuore?

 Un posto fermo, disabitato. Rapporti con gli oggetti univoci.

Tutto pulito, al suo posto, fissato. Mettere ogni cosa dove va.

Forme sicure, squadrate, finite. Il tempo bloccato è dentro quello spazio chiuso.

Mai un solo pezzetto di cenere sul tavolo. Un posto fermo, disabitato.

Rapporti con gli oggetti sicuri. Nessun altro.

Movimento lineare uniforme verso il passato. Fotografie (immagini fissate).

Contatto con cose lisce, ordine, ordine. Emerge la dentellatura incollata del pezzo del vecchio quaderno.

E così la posso controllare, vedi che non mi disturba. C’è solo lei, vagamente frattale, a dare apparente confusione.

Ma sono nel posto fermo, disabitato. Sono nel mondo che non si muove.

Rallentata, ho pudore ad inserirmi in quel silenzio. Non voglio fare rumore.

La punta dell’extra-fine ne fa già uno suo, esorbitante. La carta che dà quello sfregolìo sensuale è già troppo.

Il minimo input risulta scandaloso, immane. Sono nel mondo medio, semifermo.

Quindi davvero finito. Sono sotto l’universo campana.

Alzarmi e cercare nel frigorifero basso una bottiglia.

Fredda nel restare tonda sotto la mano.

Adesso so che accadrà, è rapido turbamento.

Un veloce girare il tappo, la presa al bicchiere lungo.

Nel vetro trasparente, osceno, un liquido giallo denso.

Un odore dolciastro, acre, invitante, mistico.

Quella cosa ficcata nelle labbra, discontinuamente collose.

Un groviglio fluido frenato ed un risucchio sottile.

Il gusto morbido del filtro, e un movimento vascolare.

Milioni di cellule festanti.

Io che mi trasformo.

A tradire.

Un posto fermo, disabitato. Rapporti con gli oggetti univoci. Tutto pulito, al suo posto, fissato.

Mettere ogni cosa dove va. Forme sicure, squadrate, finite. Il tempo bloccato è dentro quello spazio chiuso.

Mai un solo pezzetto di cenere sul tavolo. Un posto fermo, disabitato. Rapporti con gli oggetti sicuri.

Nessun altro. Movimento lineare uniforme verso il passato. Fotografie (immagini fissate).

Contatto con cose lisce, ordine, ordine. Emerge la dentellatura incollata del pezzo del vecchio quaderno. E così la posso controllare, vedi che non mi disturba.

C’è solo lei, vagamente frattale, a dare apparente confusione. Ma sono nel posto fermo, disabitato.

Sono nel mondo che non si muove.

Rallentata, ho pudore ad inserirmi in quel silenzio. Non voglio fare rumore. La punta dell’extra-fine ne fa già uno suo, esorbitante.

 La carta che dà quello sfregolìo sensuale è già troppo.Il minimo input risulta scandaloso, immane. Sono nel mondo medio, semifermo.

Quindi davvero finito. Sono sotto l’universo campana.

Uscire e chiedere al ragazzo di fronte di entrare, qui.

 

"La  morte voluttuosa ha il fascino

dei mille avvitamenti diurni

insincera prepara il lamento

per funambolici mattini muti".

 

 

 

1) Prima, c’è uno scivolare-
Entrare (si entra ma non è proprio un’entrata, è un esserci, uno stare); quindi stare a perpetrare, portare avanti la storia, l’immagine fissata a scorrere.

Il punto sarebbe: qual è quest’immagine? Ammettiamo sia quella di una foglia caduta nel brillare dei colori autunnali. Foglia caduta, comunque, e foglie cadute in massa alle soglie, poi nel cuore, dell’autunno.

Poi si vorrebbe invece, ecco, piantare il seme di un albero ma si continua a parlarne girando al sé attorno ossessivamente e quasi ciechi ad altro (nel fatto che c’è il seme da piantare) studiando approfonditamente persino l’utilità dell’albero e della sua presenza nel mondo e per la fotosintesi clorofilliana e per l’ombra e per l’ossigeno e per il cibo, per l’acqua drenata e il suo ciclo e per tutto il nido organico che l’albero è.

Se ne parla se ne scrive. Nessuno che lo pianti questo patente seme. Il linguaggio si sparla e si arrotola e si spacca le orecchie. Non sviluppa alcuna tecnica –  Allora è che abbiamo capito che la tecnica non serve, è inutile? Sembrerebbe di si, quindi anche il linguaggio non serve, fatto com’è a sua volta di una tecnica, di una sorta di artigianato dei simboli e dei fonemi: verrebbe da concludere che se tutto è linguaggio ma il linguaggio in sé è niente, tutto è niente.

Così è che si torna a scivolare, ad attorcigliarsi, nessun albero viene piantato-

Viene da pensare, per niente intenzionale e figlio di cattiva coscienza, ad un sofismo diffuso- Quanto questo parlarsi nelle orecchie ed arrotolarsi pedissequamente alle origini del senso, alla ricerca delle basi di una sorta di fede (senza contare il fatto che spesso si sia alla ricerca di una sorta di autoassoluzione, della pratica di una sempre confermata bontà o comprensione che poi della comprensione ha solo la facciata, mostrata) derivi da (sia figlio  di) un’incapacità di assumere la fatica e la complessità di un  vero lavoro di costruzione intellettuale.

Vorrei sentire parlare di  ed applicare tecniche, costruire senzienti apparati portanti. In questo caso linguistici: comunicazione binaria, codifiche, reti neurali, corrispondenze, storia degli incroci. In quanto è pare solo, seppur commisto, e fa nascere nomi, foglie ascellari, fiori, polline, frutti, dal tronco scelto che si cura e , attenzione, si lascia fare.

2) Qui però va fatta distinzione, e potrebbe essere la prima, la più cara: la codifica di un linguaggio non parte necessariamente da una teoria, o da una "grammatica"-  Isoliamo gli elementi significativi da quelli di riordino e di classificazione, Linneo ci perdonerà. Codice non è omologazione ma creazione di legami che parlino, dicano, siano capaci di descrivere.
E’ già risultato riuscire a capire elementi di raccordo utili al racconto della cosa-mondo e/o delle sue parti-
Ci sono sfrenatezze che arrivano a dire molto di più di anni di studio delle aridità. (to be continued)