Mah…e che dire di te, rosellina, denso, rodendro, denso dire e che fare di te, signorina, mille cavalchi e mille mire, non è una poesia, ti assicuro, sono a parole dissentire e guardo con malizia fresca un muro mentre mi invento le parole. Che parole? Vasculite, porpora, eritema nodoso, forse panarterite nodosa, qualcosa di autoimmune? Cos’è, bambino, che ti si ispessisce minaccioso dietro l’orecchio, sembra un verme duro, ancora sottile, armato di petecchie e lesioncine a vari stadi di maturazione, e nel padiglione lo stesso, e questa febbre cos’è, cosa. Ma il medico sei tu, e solo dubiti, ti appaiono dal dentro le diecimila pagine evidenziate ed i criteri di selezione del mestiere, la cattedra, i referti, il ritmo dei reparti e la persona bianca nel letto che le conviene. In quanti stadi dividere l’evoluzione di una cosa che appena compare, con il picco che ha deciso, come metterla dentro te, la tua squalifica, il tuo mondo intriso di una me disintegratamente accessibile, maldestra, falsificabile, inattendibile e caparbia. Mi scrivono lettere elettroniche quando sono giù: piene di nostalgia. Ristabilire il senso di realtà ti fa arrivare, dopo una settimana, risposte iperrealiste.

Un naso è un naso, un ano un ano, la mano che solleva la busta proietta ombre calcolabili con leggi prospettiche, la scrivania si erge al tre quarti della stanza come nessuna vera scrivania potrebbe fare, tu dietro che risenti delle paturnie solite, solite, di un giorno autunnale (freddo, foglie che cadono, grigio-nebbia, buio presto) e questo si vede perchè hai sulla faccia ariosa un ghigno comune, più comune del comune, e le gambe sulla scrivania come ogni americano che si rispetti. Mai messo in discussione che tu abbia fatto un figlio, e che ti somigli magari, ma vedi che bello sarebbe stato vederti in follia espressionista, semi-disintegrato, forte di colori, la vera smorfia, la grimace celinesca mostrata in tutta la sua miseria.

Languido Corrado a noi chiede ora come ti vesti, sorellina, e so che tu vesti bene, che hai elaborato quell’istinto come mangiare merendina, che fai caso ai verdi, ai bianchi, ai blu, e nel tessuto, la sua rifrangenza, il suo spessore, hai individuato il dio della luce, e nel taglio e le proporzioni calcolate e nel cucito ed i rilievi, palladianamente attenta ai vuoti ed ai pieni, preghi ogni giorno il dio della forma. Che io, povera, mi trascino con 46 delusi, troppo grandi per adesso, e gins usati, maglioncini delle zie, clarke insistentemente indistruttibili e sciamannatamente marron, le unghie rosicchiate, le magliette della salute, un codino maltagliato e grigio e il viso di un’olandese sovrappeso gonfiato dall’estrogeno che passava di lì.