Aveva M. predisposto il viaggio con inconsueta perizia. Partiva per Gericault, un piccolo paese della costa atlantica dove era vissuta per qualche anno durante la sua infanzia. Sapeva M., di questo paese, che non era precisamente sul mare ma si propagava a spina di grano dalla statale che se ne allontanava , le viette e gli slarghi tendendo a congiungersi in un punto impreciso ma conformante.

Pensava, M., alla gentilezza di un conoscente di laggiù, tal signor C., che le aveva inviato quell’invito governativo rivolto ai medici specializzandi. Se lo ricordava enorme, quel signor C., gli zoccoli, la camicia colorata, i capelli già bianchi, il viso scuro, erano ricordi della M. bambina, s’intende, ricordi di quando tutto ha prospettive sbieche, prese dal basso, di strana economia ergonomica.

Quel giorno si era fatta svegliare dal temporale ed era subito corsa fuori a chiudere i finestrini della macchina. Era già piovuto appena ma il grosso si stava preparando, infatti arrivò. Il tempo di scappare fuori casa con lo zaino a penzoloni (rosso, da alpinista, stretto e senza struttura metallica) e di saltare sull’auto diretta alla stazione di Pescia.

Pescia-Frigaso fu un battibaleno. Una signora siciliana che racconta molte cose di sé, questo bisognerebbe sempre trovare sui treni nei viaggi molto lunghi, quel sorriso increspato e quegli occhi azzurri sulla pelle bruna, non-contati figli ora giovani adulti che hanno più o meno sfondato ma che la vanno a trovare, il sugo fresco preparato la mattina perché alle tredici “prenda” la pasta. Frigaso-Cespede-Gericault fu più lento. Lesse.

Aveva tra le mani un libro nuovo, M., dedicato ai matti ed ambientato in Cadore, bel cielo stellato indicato da regina rossa a seno nudo (un’iconografia medievale) a darne sintesi all’inizio. Personaggi ben caratterizzati. Accurata ricerca storico-sociale, adeguamento di pesi e misure. Ah, c’era da viaggiare nel tempo, ed era come passare a duecento anni prima in qualche minuto tanto il salto era reso breve, e quindi M. entrò nel libro.

Prima l’arrivo del tedesco in paese, con lettera vescovile di accompagnamento, dal parroco. Lei in un angolo dell’entrata a guardare i due, uno incupito, l’altro più lieve, discorrere di alloggio. Per come percorreva i monti e la valle questo strano prete, l’inquilino, si diceva M., l’avrebbe seguito, sicuro. Sicuro che lo avrebbe ascoltato mentre leggeva i segni della sovrapposizione dei calcari e dei silici nelle pance dei sassi, il senso del numero dei petali, della forma delle foglie, del loro modulo di crescita e del punto dal quale partono (le foglie ascellari, ad esempio), il senso del colore degli stami.

E i nomi delle stelle, e dove si vedono. Possibile ricordarsi solo Orione ed i due carri o orse, ma neanche tanto bene?

Allora M. si vede infilata dietro il ragazzo rosso ben piantato e seguire l’improvvisata comitiva cioè farne parte.

M. va dai fabbri, con quel prete, e pensa a suo nonno, ecco, pensa al piccolo geniale ferraio che chissà come teneva martello e pinza tanto minuto era, poi ci arriva e conclude che fissava il modellabile in altro modo. Ma loro sono robusti ed hanno un braccio più lungo dell’altro, mani grandi quanto una testa. Vanno a bere nelle osterie quanto guadagnano, corpi unti e menti accalorate, sono creature tremende, tremende.

M. esce dal libro un attimo, prende tempo, una birra fresca no perché non passano, e non fuma nemmeno perché non può più. Quindi torna al libro, sembra destino. E dentro il libro trova la donna, la femme. Compare, un filo sordomuta e un filo bruttina, a servizio dell’arciprete (bonjour monsieur l’archiprêtre) e figlia di marchesi e ben disposta al coito; è una donna moderna, tutto sommato, che non vuol saperne di sposarsi e di mettere la testa a posto ma vien da chiedersi quale sarà mai il posto della testa di cotanta donna. Infatti la testa le viene rotta dai diavoli forgiatori e i pezzi del suo cervello sparpagliati ben bene nella stanza, M. non c’era quand’è successo, era di sotto a bersi vino di Cipro con l’archiprêtre, non sa immaginarsi queste pagine, non le vuole, la rivoltano dentro come l’orbettino che se ne esce dalla bocca dell’indemoniato fanciullino che verrà solo dopo, alla sessantanove.

Comunque adesso che sta arrivando a Gericault M. mette il biglietto del treno sin dove è arrivata, certo che un romanzo è più facile leggerlo che scriverlo, pensa, tira giù lo zaino dal portabagagli e si avvia verso l’uscita più vicina nel budello del corridoio già pieno di quasi arrivati.

Riprendi d’un fiato che stanno preparando una crocifissione. Ci sono tutti, sotto il monte della croce, le donne, le pie, innanzitutto, quelle di cui sopra, fuscelli affidati al vento e povere madri sole, molte puttane.

Ci sono i funzionari del potere, uno par sorta. Nazionalità varie, interessi e motivazioni cangianti ma tutti calati nel ruolo a difendere bandiere. Ci sono i ricchi e/o nobili della città, meglio i cittadini col servitorame che sta bene dove sta. C’è la scienza a brandire serpenti arrotolati a steli, salassi, clisteri e c’è la chiesa atrofizzata, serva, compromessa; c’è Venezia che muore, è morta ora, quel movimento di incontri sotto-paratia e celesti scaraventato contro il suo isolamento a dominare, l’illusione del sempre dal mare.

E sotto la croce c’è Marco, lei lo vede bene, avrà trentanni, ora è inclinato a cercare l’aceto, ora è seduto a dividersi i panni, ha gli occhi azzurri dei diavoli, Marco non crede a nessuno e proprio a niente.