Allora lui la prende di peso e la fa sedere sul tavolo. – Cambio scrittura ogni altr’anno- pensava Lagestante nel frattempo, ma non glielo diceva e lui iniziava con:

siamo condannati – a essere liberi?- a cercarci le radici  che ci siamo tagliate. Facciamo così: ci mettiamo davanti ad un vecchio quadro che non oseremmo mai più ridipingere e lo descriviamo minuziosamente interpretandolo. Quello che ci differenzia dai filologi è che non citiamo mai le precedenti letture fatte , né ci interessa in particolar modo il moto  di stratificazione. La nostra interpretazione descrittiva è apodittica e salvifica, non serve alla storia. Lo stesso facciamo con un vecchio mobile e con una vecchia scrittura.

Lage si allunga ad afferrare il posacenere. Lo trascina  fino all’angolo opposto del tavolo e recupera un mozzicone ancora interessante. Lo accende con poca fatica. Poi guarda lo Scultore in piedi davanti a lei e dice:

non è sempre stato che chi non si occupa direttamente dell’organizzazione e della gestione del sapere guardi al passato con meraviglia, e ne ignori scorie e procedure? E la storia di cui dici si è comunque fatta, queste agenzie hanno lavorato in parallelo, le visioni dei santi non dovevano per forza rifarsi alla tradizione agiografica o alle peripezie delle prime eresie sapienziali poi inquadrate dai concilii per brillare di passione.

L’uomo ora le si mette a fianco, appoggiandosi al bordo del tavolo con il sedere e perdendo il contatto visivo con lei. Si accarezza il mento con la mano e passa il pollice tra le labbra come a chiudere, come ad aprirle:

è il ruolo del filologo ad essere del tutto cambiato. Non è più figura di intermediazione. Il tuo santo faceva fede a, era in un punto preciso della storia, un punto in cui gli anni e i fatti vengono contati e il prima e il dopo, anche se illusori, permettono una lettura relativamente univoca. Era il filologo, o chi per lui, a mettere ordine, non serviva sapere quale, come. C’era un ordine, un senso. E la sua sovversione era a lui legata. Ma, ed è difficile ma forse anche inutile dire “da quando”, la mediazione che ci ricollegava alle radici di tradizione è stata stroncata.

Lage si alza. Va verso la finestra chiusa sulla valle, guarda fuori. L’incendio del tramonto si è appiccato alla fila di alberi del crinale ed ha bruciato il lago. Risponde a bassa voce:

tu parli dell’arte regina, parli del codice culturale impostato dalla cattedrale e dal libro e della loro storia reale, che è quella collegata ai poteri del mondo, non ultimo il potere informativo, forse il maggiore, perché è vero che diventiamo quello che ci viene trasmesso. Ma c’è un’altra storia, che non dipende da queste costruzioni ed è forse più simile ai processi di natura, comincia nella pancia e vive di stimoli poco caratterizzati, basali, indicibili. E’ anche la storia di una solitudine, del primo approccio silenzioso e della assunzione e soluzione della passività. Nessun apprendimento fondamentale ha bisogno del tuo filologo e l’anima prima del corpo dell’arte e la nascita del linguaggio riguardano un’altra storia. Ben collegata a noi da sempre e indistruttibile.

Ma non riescono a dire molto, queste parole, allo Scultore contratto che ha appena assemblato le scaglie di legno nel vasetto della marmellata svuotato e ripulito. Guarda Lage controsolecadente e la vede scontornata nera, una povera donna endo-soft.

Io parlo, signora delle nuvole, di quanto ci alleva e dà da mangiare. Credo che siano la tecnologia e la scienza le uniche vere arti del nostro momento. Loro sanno parlare. E’ loro il progetto esistenziale. Loro hanno i filologi preposti. Gate è il nuovo vero Michelangelo, non esiste nessun archtetto che non si occupi di urbanistica e comunque faccia parte di un team che possa parlare più. Dove le immagini sono confuse e tutte contemporaneamente proposte chi parla è chi fa, realizza contenuto e trasformazione. Il dio di fuori non c’è più, noi siamo dio, e vogliamo guarirci e soccorrerci, e soprattutto non morire mai.

Lage gli prende di mano il vasetto e lo scontorce, lo disfa.

E la tua ricerca delle “radici -roots, racines-” che ci siamo tagliati? A che pro? Cosa serve, nello splendore esausto dei misteri delle materie svelati, andare a ripescare medioevi e rome?

Lui le trattiene il polso, la blocca contro il muro e la schiaccia.

Non ha senso ricreare Dio. Quello che siamo è la conseguenza pedissequa di questa volontà, rileggiti Nietzsche, ed è per questo che Dio è morto. Lo ricerchiamo perchè lo abbiamo voluto perdere, anzi, da solo si è perso! Ha fatto tutto da solo, il bene senza il male, la luce senza l’ombra.

Lage gli dà una ginocchiata nelle palle, leggera, lo spintona via e si versa un bicchiere di cabernet, spettinata e trionfante dice:

convengo. Ma mancano troppi punti di vista, e uno di questi, e importante, rileggiti Jung che citi solo trasversalmente, è quello non speculativo, interiore d’emblée. Il mondo inventato non è sostanziale frutto del filologo ma frutto delle cose per quelle che sono. Guarda l’intelligenza superiore della costruzione di una mela, la buccia che contiene una polpa nutriente zuccherina, i semi all’interno che se ne ciberanno per crescere in albero, e l’albero con salde radici ramificate profondamente sprofondate nella terra, e la terra di azoto  e idrogeno e ossigeno e ferro e sodio e potassio e calcio e fosforo e carbonio, e il carbonio tetravalente nella sua mappa che darà quella forma a quella cosa, quella sola forma a quella sola cosa. Noi annaspiamo come cavalli calcolatori alla luce dell’intelligenza naturale, concreta, oltremodo vera. Da sempre l’imitiamo per possederla. Questa cosa minuscola abbiamo saputo ottenere, la vittoria di Pirro di possedere chi ci possiede.