Sono nata a Manila. C’erano i manifesti del papa sulla strada grande. Io mi infittivo con le buste di plastica biancorosse sul bel mar cinese meridionale. E’ stata una nascita esplosa contro il giallo del grigio del cielo caldo ed è stata una macchina nuova che consumava aria ed è stata promessa di quiete per la mia cara famiglia ed è stato tutto un cercare di farmi le calze e le scarpe (mal riuscito, da subito).

Sono andata da mia cugina in un’isola turistica, italiani. La aiutavo a cucinare e mi guardavo i cartoni animati. Rifacevo le camere e mi provavo i rossetti delle clienti. A San Valentino, imboccolata, andavo nel Gran Centro a vedere il mercato, le scimmiette, gli spetardamenti e l’estate che si esprimeva. Lungo il pelo dell’acqua, sulle barche a bilanciere, il plancton verdeggiava sotto la luna piena, un amore, un amore, e lo squalo balena che fa solo paura, la mia camicetta migliore.

Orione. Il mio uomo dall’arco e cento frecce e la cintura, tutte le stelle del sud spianate per la mia felicità, la pelle che luccica come l’ambra scura ed il mio nero timore diventare forza, due maialini sotto la palafitta e tutto quello che so. Il mondo è fermo. L’estate è ferma. Le piogge sono ferme.

Io muovo. Queste onde impareggiabili fino all’isoletta degli ossi del giapponese, il dio mago che s’incrista, le regole della casa, il geco che cade, l’elettricità del generatore. Muovo queste barche, ancora, e le giornate dei cacciatori di nidi di rondini, le rondini, le meduse e qualche palma sbilenca. Muovo il gatto e il cobra e, se passa da qui, anche quel poco di buono di mio marito e la sua bottiglia di Tanduay.