Hai una forza che non so come riprodurre. Credo dipenda dal tipo di visione, dal punto di vista o da una sorta di microscopio allucinato attaccato alla tua parte vedente.

Non so bene dove tu ti metta, ma fai partire linee. Strane, strabiche, puntinate, non so, sono linee che fanno traslare ma non danno mai la sensazione che si parli d’altro. Così facciamo viaggi speciali, partiamo da un punto e ce ne procuriamo uno diverso e nulla sembra essere cambiato.

La cosa, infatti, è sempre lì che ci guarda. Ha cambiato le scarpe, si è messa ad accarezzare due gatti, ha incrociato le braccia, accende il gas per fare un caffè. Dopo il mezzogiorno di amore scende furente dalle scale, ha aperto la porta del cinema, sbatte la cartella davanti al naso del tipografo, si è cambiata il numero di telefono con una telefonata come di lampo. E ancora.

Ma è sempre lì che ci guarda. Partita per la guerra o per qualunque ricorso dal giudice di pace, sentenziante tiritere con gli amici al bar o sotto processo dalla parrucchiera, o nel supermercato che la spanna, è sempre li che ci guarda.

Ha visto cadere foglie bilobate dal ginko. Ha aspettato tre minuti per bere l’aspirina. Ha raccolto tutta la polvere del tuo appartamento percosso e fa come giochi di prestigio di bambagia. Ha steso la lunga gamba nera di traverso nel corridoio, ti ha offerto l’ultimo sorso di birra che le restava. L’hai vista in bagno sciacquare il viso sudato e muovere le mani come a togliersi una ragnatela.

Cosa ti ha mosso il volere di vederla spostata?

Io credo tu abbia al centro un organo che sparge. Accumula e distribuisce pezzetti consoni, non troppo disintegrati. Mette una sua luce nel momento che asporta, lo fa entrare in una storia perplessa senza mai mancare la mira. Espone, scatafascia ma non rompe, il pezzo si infila gentilmente nella tua operazione e dice che va bene esser smembrati quando il membro poteva dissociarsi e ricomporre. Io credo tu abbia un potere anche magico di sezionare dove non si credeva questo potesse essere fatto, un muscolo ctonio quasi senziente, un incidente maestro che punta il coltellino (ma forse è un dito) dove una sorta di incrocio del pensiero forma nuclei separabili. O ricongiungibili. Io credo tu sappia dove si trovino tutti i segreti di Goethe.

Lui si occupa di riportare a galla e tu affondi. Lui mette alla luce e tu oscuri. Lui mette lo scuro in vista e tu la luce in nero. Ah! Che negredo! Tu non sai cosa fai, eh, non lo sai. Ti viene molto morbida questa lingua che imprime le immagini sui vari supporti messi a disposizione, ti viene facile e si dice che il facile non conti. Tutti fare riferimento a questo codice qui, dicono che così ci capiamo. E se ogni settore ha la sua lingua elfica tu, che ne hai una proprio così, non conti. Poi hanno anche ragione, che tu non conterai. Vai, vai.

Vai sulle linee del tuo cantar perduto, della tua conta spasima di echi, della bella scordata sotto le acque ruvide, del cielo e il suo bicchiere per la valle scostata e la bambina sudata petaletti sulle dita, vai col mondo autoctono a spargere spergiuri e morbidi e secchi assetti di immaginette, vai con dio nei gesti strani dell’incontrare perso vaghi scorci di fiamma penetrativa e di umore consenziente, e di scazzo spirituale e pudore primitivo e sinistra malinconia e pietoso invito e grandine imponente e poco dolore spiccio e portentoso animo e sottile provocazione e spento motivo e solenne imitazione e principiante crasi ed infinito conforto e sporco privilegio e bell’amore. E sporc’amore. E odio pulito.