Era la frescura, che ora lo capiva che fosse, “la frescura delle notti”, ad averlo portato fuori, guardava nemmeno mezza luna e pensava poco, il filo del suono del dancing, esisteva ancora, a raschiare semplice.

Sorel. Sorel. Il perduto? Lo Scultore subiva l’impatto di certa letteratura francese dell’ottocento come un colpo nuovo e l’atterriva il non averla mai davvero subita. La cosa più forte che passava era il “riconoscimento delle forme”, ah!, lo Scultore l’avrebbe senz’altro chiamata così.

Il vestito, che poi in provincia, la provincia, tutt’ora aveva corso, il vestito innanzitutto. Il vestito parla, ma che dico parla, il vestito urla. Le fattezze del vestito, vedete, parlano di voi, dicono la condizione, che non è necessariamente la condizione esistenziale di partenza, diciamo così, ma la condizione delle proprie ambizioni. Oh.

La perfetta servitù della forma ad un’idea, prima bella solida (la buona materia prima, la buona fattura) poi più liquida (il taglio giusto) poi aerea, gassosa (i particolari decori gli accostamenti e le eccentricità, la piuma ed il neo il cappello la fibbia i fiori la toppa). Alla fine comunque l’inserimento nella corporazione, sempre.

Ma lo Scultore non dileggia. Impara. Guaisce, quasi di gioia. Anch’io, anch’io, dice commosso e non si para, non ostenta, anch’io in questo gioco, e dove sennò?, ma più tenue – e si cruccia – più ambiguo – e s’incazza – più democratico ed inflazionato – e si deprime – più indefinito e sfasciato – e si riprende – meno orgoglioso meno diffuso – e vabbé. Non sa bene se è proprio così. Una forma, pensa attaccato al suo album di schizzi e procedure, avrà ben un senso.

Quindi va a parlarne con le maestranze che si occupano della sua prossima installazione alla Biennale. Non che le spalle alzate del capotecnico lo aiutino molto a trovare la Via.