Lì, infatti, nel cielo di novembre come si presentava, ebbero inizio i canti lamentati da Gravida.
Si usciva poco, niente invitava al pic nic, e nulla che variasse e promettesse il fiore. Lo Scultore
preparava il busto di una specie di dio, se ne sentiva la mancanza, diceva, perché tutto era diventato, nel tempo, nello spazio del tempo,
anonimo, indifferente (che non si distingueva dal resto),
possibile, privo di meraviglia, spiegato (che aveva la pretesa mantenuta di un disvelamento riconosciuto)
urlato, conosciuto, allineato (per poterlo vedere meglio)
ma anche dichiaratamente buono, avvicinabile, consenziente e poi banale, troppo accessibile quindi
prepotente, intelligentissimo e stupidissimo contemporaneamente, tutto l’attorno che appariva ma si introduceva
anche nei libri, anche nelle scuole, anche nelle leggi, anche nelle aspettative di risposta professionale
e anche nella lingua e insomma nel senso delle cose,
era diventato uno schema. Quindi facile da leggere, sintetico e completo, chiaro e pulito. Esaustivo.
Allora lo Scultore faceva questo busto a immagine di demone, dimentico di una tradizione che ne aveva pensati e subiti molti
volutamente, volutamente, volutamente dimentico : quei molti avevano portato allo schema, e lui – lo schema- lo voleva distrutto.
I canti di Gravida, che lamentavano, non seguono le direttive dello sconosciuto di sopra.
Fanno qualcosa come: oh nascita, oh morte, parolissime intonse, vieni qua vieni qua, ho sognato di scale, ho sognato di case, condomini, il mio appartamento sempre all’attico sta franando, mi sono vista nuda salire salire salire le scale e davanti mio padre, e mia mamma sul pianerottolo davanti alla porta socchiusa, oh torri oh castelli, mio fratello nella loro testa mio fratello presente, io nuda con la mano davanti alle tette – cosa guardi?- mio padre si è girato, io abito dall’altra parte ma sulle scale- oh giorni oh prigioni- salgono altri, salgono colleghi di fallimento, figli di papàpapà
Smille con il senso della neve che salvano gli agnelli, maschi però, c’è anche l’ascensore, ma è sempre rotto e poco sicuro, la porta non si chiude, tocca legarsi una fascia alla schiena e risalire per chiodi, punzoni, sembra una vera scalata alla montagna, ma è possibile farla solo obliquamente tra i vari piani, un muro di cemento con mensoline lunghissime, mio fratello mi dà indicazioni su come fare -oh castri, oh stagioni- quella casa continua a riproporsi, come una cosa che non è una casa, ricorre con modifiche minime e che castellaccio, che mura, che precarietà ma che solidità, che mondo di scale che c’è chi scende che c’è chi sale, e frane, e intonaci sbrindellati, e finestre sui tetti per guardare i vicini che sembra si possa toccarli ma si finisce sempre col cambiare stanza, sono stanze abbandonate
oh inizio oh mai fine-
abbandonate che manca sempre qualcuno, un’attesa modestamente infinita, un piazzare oggetti per poi scordarseli, letti e cucine, fotti e non mangi, la polvere copre e sfarina, lunghi vetri dividono ma lasciano passare la luce, ma è strana questa luce, mostra, mostra, mostra, nell’angolo buio di quella che diventa a volte una casaccia tetra solo mostri. La parte privata del sé? Mostri, diavoli mangiatori di carne.
Io ne ho tre, anzi ne ho quattro
sono cinque
brunebelline e forse rubie
le ho fotografate per una, una
ne ho sei.
Scrivere sembra fatica, fatica
ma scrivere scivola come non saprà mai
come uno scorrimano e un pendolo che spicca
volo uguale spinta minìma
le altrove menti, che menti
prendono il cucchiaino e lo girano in tazza
che come sanno farci loro non
puoi non puoi non spieghi
(scrivere sembra che dica)
mica è sgretolare pollini
mica è modificare pruni
mica è scodellare perifrasi
scrivere è santo
e puntella l’aria pàtia
e ricomincia subito sbadellando
scrivere è dopo
ha il pretesto del cerchio a sussidio
ma sale es cende, si dipana
un rocchetto di filo diseta disseta
anche lei, stupefacente
ha mondo ha blu ha lei
coerentemente
un grande pensiero e
un piccolo pretesto
Ti ringrazio per il commento., Silvia. Purtroppo è un casino quando non si è in contatto con una parte di se stessi, penso piuttosto importante (anzi, probabilmente molto importante) ma ne si ha così paura da rifiutarla. Solo che più la rifiuti, più rompe i coglioni, in mille modi, tra i più ingegnosi. non ho capito bene il discorso sulle confederazioni
sì scrivere scivola ed è santo, confessa e quieta. ed è vero nella prosa come nella poesia. ma c’è anche la fatica del dirsi dentro le cose, oltre le cose, in quel fluire stesso che appartiene alla parola.
La confederazione delle anime la trovi in “Sostiene Pereira”, ma credo proprio che Tabucchi non abbia mai così tanto pensato a Pessoa, come ti accennavo, Rossano. La sostanza è che l’io egemone può cambiare, essere sostituito da un altro possibile tra gli ii della confederazione interna, non necessariamente per evoluzione, progresso, maturazione etc. ma anche solo così, perché andava cambiato.
dispiace che una persona che sa scrivere abbia così a cuore di pubblicare.
non bruciarti, silvia.
non sprecarti.
anzi:bruciati, sprecati ma non per bubblicare con le ghenghe capitanate dai capitani d’industria in vena di mecenatesimo. lascia stare gli assoindustriali, i sindacati, il rotary, le cooperative. lascia che si fottano.
scrivi, silvia. scrivi così come fai.
trasmetti emozioni anzi…non le trasmetti: le comunichi. tu.
lasciali soli i trasmettitori.
e vai. senza padrini nè padroni.
auguri.
(senza ricreazioni)
jordan
Scrivere sembra fatica…
Faticare sembra scrivere,che un pò muoriamo e un pò viviamo.
Molto bello questo post.