Sei sepolto dalla tua roba. Io ancora sveglia che fumo bevo scrivo. Pochi metri ma così. Sei quasi livido, attorcigliato al tuo programma, io al mio, ma non li danno in streaming. Poveri noi cristi assisi sui confini delle stroppie, circoncisi male, si vede, faticati pigri. Poveri noi sciocchi ma grandissimi, mendicanti di anima imperterrita sovrana indissolubile, deficienti veri assatanati di libera gratitudine e di strom.
Nessuno ci libera dal vero, ci rappresentiamo una storia a testa, indifferentemente data dal povero cielo; che anche stavolta sbagliò.
Mio amore torbido mai riconosciuto ti prego torna e dico di no. Rimani e domani ti ricomprerai ogni cosa, so. Ed io impoverita, ancora più piccola di adesso, io sarò ferita, ancora più ciccina di adesso, e mi morirò, ancora più morta di adesso, e risorgerò, ancora più stanziale di adesso, vedrai fiorirmi i boccoli dello stile marito, anatra giovenca che scalcia l’avena, folle micetta scema che lima la coda ai topi, troia immobile.
Che non comprare più, io non ho soldi, non ho soldi, non li voglio, sono senza, cosa compri, cosa compri più? Non comprare, prego, vieni scalzo, dimentica, tienili per tutte le cose importanti, le casse dei funerali, i panni dei bambini, la libertà provvisoria.

Non tanto che lavori, ma per chi lavori? Cosa stai facendo?
Non tanto che ti sostieni, ma cosa fai per sostenerti? Dove si muove il tuo fare, la tua capacità di progetto, la tua idea di vita? Mangiare bacche, e ti farebbe schifo? Incastrata dentro la commedia devi rimediare, e fai da servomeccanismo, eppoi sei parte della commedia, le fai da sponda.
Sei uno dei suoi motivi, in fondo, non piangiamo più su te, il potente e tu la servettina, quella che sotto: spostati! Che da lì sotto muori,  devi rimanerci tanto? Puoi rischiare di corromperti ma mille vite, quelle degli esiliati ad esempio, quelle degli spostati, possono. Tu non puoi, che hai bisogno di un padrone.
Non ti ascolto più, schiodati da lì. Perché hai bisogno di un padrone? C’è un grande occhio che osserva quello che fai per comportarti bene? Quanti soldi ti servono per vivere? Allora: idea di vita.
Costruire armi a Breda? Mantenere il figlio. Cazzo. Il figlio. Avrà bisogno di qualunque cosa, lui. Che ‘sti coglioni che siamo diventati non lo diventavamo senza figli e senza in pratica niente. Il piccolo dio da svezzare per giustiziarne altri ottanta. 

E’ un mezzo balordo questo confidarsi a qualunque deficiente passi pensando sia quello che pensi

E deficiente te che pensi che ti possa capire e deficienti  noi che ci infiliamo in questi finti dialoghi

Dove parrebbe tutto definibile  e dove invece mistificandoci ci spossessiamo delle cose difficili e della

Consueta connivenza dei fatti, maledizione alle tue letterine ed al poetico che fingi e alle tue immagi

Nette e alle quattro cose che sembra tu conosca, esotiche e informine, quattro dettagli urlanti e poi

L’elenco lunghissimo in bibliografia dell’expertise della filografia del metatesto delle tendenze bambine

E di quelle più grandi. E’ un mezzo delirante lanciato sul mare in tempesta col salvagente delle paroline

E tutte quante, tutte, senza possibile un arrangiamento gentile, che mancano i dati di te, la finalità sottile

La faccia greve, l’indirizzo incerto, la diagnosi precisa, l’età e lo stile, il fallimento percorso, la catastrofe

Grassetta, i figli malnati e quelli nati in fretta, ed il padre bandito ed il padre magnifico, il paese piccolo o

L’impostura cittadella, eppoi la madre bella e quella troia che ti ha trapana il cuore, decrepita e crepita.

Lavorassi tanto all’autonomia di qualcuno per trovartelo poi contro, esterrefatto.
Ordinassi tutte le cose, gli accendini, e ti accorgessi che è dimenticandoli che li usi per vero.
Insistessi sull’acquisto degli ultimi servo-meccanismi come un surrogato di crescita.
Insistessi sulla bellezza maggiore delle isole vergini e la vita non agra mentre dormi da solo tossendo.
Crescessi senza surrogato di crescita, qualunque oggetto chiuso in un armadio.
Costruissi armadi per contenere blocchi di vestiti fermi, irrecuperabili, per concetto.
Avendo potuto voleva conquistarsi questo amore, il vestito incandescente a precisarne un nucleo, si doveva decidere come affiancarlo alla vita stata ed essendo vissuti non traspariva bene e apparendo perduta cercavamo cosa potesse crescerla, per darle il latte giusto per darle il giusto per prenderla.
Andreste dopo a cercarla con le lacrime grosse degli eventi infernali e degli eventi bugiardi, con queste andreste a chiedere conto, foste stati lì, in quella precisa fogna? In quella porca fogna, e dove per i secoli l’abbiamo cercata, saresti adesso stesso pronto ad indicarla, noi però non l’indicammo mai, quella?

La durezza pietrosa del cuore.
Ma no, un albatross crocifisso.

La fitta sicura è la meno certa. L’anima non ha ali messe in luoghi adatti. Il coltello affonda bene i punti inutili. Dio cammina nei camini spenti, spazza il cielo al limite un bimbetto idiota. La madre non entra nell’allattata e nei suoi suoni ferrosi sue foreste nucleari.
E che nessuna parola descriva niente, che la lingua, pura paura concava, diventata te sia sparizione perfetta.

Sabrina è un nome che mi è caro. Lo leggo e subito mi appare una ragazza. E me ne appare un'altra, a fianco al nome caro. Sabrina, che si scivola e che sbriciola.
Metto un golf verde mentre guardo l'attrice francese che è solo un giovane monumento alla gioventù bella, ma la fanno piangere e fumare e credo, si voglia perderla e perderla. Le penetrazioni si alternano al fondo rumore del mare e la luce è uno sfondo, serve all'immagine niente.
Anch'io se capita ti prendo una sberla, mi fa impazzire la tua decrepitudine e la giovanissima stronzetta, infilata al cuore povero hai una mannaia perspicace ed i denti li affondi dove hai perduto il latte. Lo schifo di pace, e il mondo impotuto, ami il tormentami, fottutissimo. Mille di sberle, sonanti, mirate, mio porco dentro.
Sabrina è un nome che mi è caro anche se non le darò più niente, e così a Monica che ha un risarcimento dovuto e pure alle altre, care mia dolce gente, io non do più nulla, non esce e non mi prende, una distantezza, una lontana, l'amore è salvo se non parla delle cose che abbiamo fatto oggi, e raffrontarle e dire meglio, peggio, cosa pensi dell'educazione del tuo bambino, come coprire di colori queste stanze terribili, cos'è successo.
E' la domanda che mi fa la grande paura. Cos'è successo. Le novità che garantirebbero la vita, plin, plin, una puntata, una new, uno trip, un gioiello ed un voto, due conversazioni grasse con la persona giusta.
E l'eredità, la sorella, l'incompresa, il lascito, la madre, la guerra, la malattia paventata, il dovuto. E la cerimonia, il presenziante, il posto nella tomba, il suo, l'ospizio, la vicina abbaiante, una morosa di terza, il permesso di soggiorno, l'operazione alle ossa, il ristorante pregiato il viaggio in prima e la letterina.
E dov'è finita la gente. E quante stimmate mostrano. Con quali medaglie ora si prestigiano. Dove vanno a svernare.

Lo spazio, che pare non cambiare mai se da vent’anni stai nella stessa casa, e magari ci sei nata, o hai traslocato da via Gragnuoli 2 a via Gragnuoli 6, angolo Ripagnetta, lo spazio si accetta così com’è. Ed anche il tempo è fermo.

Il tempo non si muove mai. In fila cose ritornano a stabilirsi e dare mostra di sé, ti occupano giorni interi e non cambiano. Credevi. Di avere superato soglie, per esempio.

Il livello di crescita poteva dare sufficienti garanzie sull’esistenza di questo, anche le modificazioni fisiche, visibili, misurabili, come dire di no. Una linea si sbava, la texture s’aggruma, i centimetri aumentano, e non vuol dire niente. Si è semplicemente compresi in un nucleo immanente, cioè dove tutto è subito accaduto, che prevede la nostra esistenza dal suo anno zero al suo anno cento, così come un piccolo film che parli di una vita, o molte intere, ti si ripresenta trent’anni dopo, e ancora, e ancora, sempre lo stesso, nella sua minuta variazione che è un disegno stilizzato di fissità.

Questa ripetizione annulla l’esistenza di una possibilità di durata e successione, e chi nasce nuovo è in riapparizione, quanto che si manifesta, forse materializzazione cosmica di un vecchio futuro, chi nasce nuovo è un sasso.

Non ti ricorderai mai più cos’hai perduto, sarà un fatto quasi fisico, tulatuaperdita, come una verruca sul pollice sinistro, o l’infinito d’adipe che ti circonda una coscia, che se appena si modifica (che non è un cambiamento, ma una con-sistenza) resta la pelle che lo teneva a ciondolare a sacca vuota.

Digitale, discreta, la tua perdita ora è un bubbone, la sua sostanza magnifica la presenza fissa, e così il tuo nome, che non cambierà, che ti diventerà cemento, così la tua faccia, la sua smorfia irrecuperabile e a suo modo divina. Qualunque risultato mai definitivo, sempre ripetuto per mantenerne la tacca (che non c’è, nessun padre l’ha mai segnata sullo stipite)(i tuoi giudici non sono quelli, vedi, semplicemente non esistono, fantasmi doveri sopra l’io mai posseduto nessun coltello)(tu non sei alta niente), qualunque risultato è un sopracciglio. Una cosa che già avevi e una cosa che avevi avuta già.

Che ripetere significa confermarti, solo, mica avanzare, mica fluire o muovere. Vedrai come tutto tira indietro, come l’orologio, nella decorativa sua presenza, sia solo un ritmo di danza. E anche il morire non ti si porrà catastrofe, non c’è nessun tempo, morire è il pelo del tuo sesso.

 a parlare con cara te chiara ora qui la tua rock singer potente e mi si solleva il cuore per quanto sembra in gracile e sempre di bellezza indistinta alzo gli occhi e la vedo giocare con i ragazzi della banda e non suonano però parlano di un reggiseno che non serve a niente e lui si capisce bene che non la vuole e molto più che lei non desidera e non spende e non sa e non può e non sente e che suona in eroina lenta mente
in eroina hanno fatto silenzi acuti e in eroina non risponderò
vederti in quegli occhi senza isolare le parole come farfalle in teche entrare nella trance della voce roca chiara dove

deve farsi forza quando chiacchera col vecchio e la vedi con poco sorriso o troppo ed abbassa gli occhi come per una strana incastritudine la madre benevola ed il suo cucù e pezzi a forma di pera e forse poco amore potuto non so so che non suona ora

so che suonerà e diventa tributo e tu dove tutta la bellezza e il mondo musica muto tu scintilla te provo a convertire in un’ apreghiera mentre ballano ma non c’è sera finale mai non c’è mai che mi dicevi che eri tu che morivi  non tuo padre e d’ altro e non ho niente che sia verde sia  brina chiara e cazzo e cazzo e  cazzo e  cazzo e cazzo e  cazzo e cazzo e cazzo e cazzo vagina e stellina e bambina ciascuno vuole fare la figura

non so più mi dimentico e passa tanto tempo tanto tanto tanto tempo lei scivola nei suoi teatri con la maglietta sporca e smagra grattando fender  nel colare la voce in la poesia braccata socialisteggia e sempre nonso rimbaud pollock non mi frega la gocciolina se la tenga lei è un armadio di legna dove metti i tuoi sbagliati e una scatola di latta che sugelli  per versioni e robert che le ha regalato le cose più importanti e niente di te solo urne persiane e merdartista

ti ho un pianto da dentro albina amelia spinascintilla spilla che strina trilla e che scompa

Alla maniera del povero B.B.

Da tre volte tempo e passa pubblicare
non ci riesce, hanno spostato le dirette le proposte
battiti battiti ma la vaghezza nera. Quel che voleva dire
era terrore, scissione e strazio ma seppellirà.

Una è stasera. Cammina nella chat come di roma
e si solleva. Non l’hai mai vista dire cosa trova
ha un sopracciglio basso se ha un crogiolo
e legge piano considerazioni persistenti

mille: una povera sa che lo spazio si rubava, forse
cercherebbe meglio in una casa sporca, che non c’è
bisogno a farla lava. Hanno predetto il pomeriggio
e, mente biforca, concluso che non abita.

Tu devi prendere due cani bravi, li accompagni
e ti fai portare fino al dentro all’ incompiuta. La Fabbrica
con i suoi centri e le sue operazioni, catenafratta e stasi.
Mentre io salgo a vedere nell’ufficio dell’isolamento se

non sapevano niente, progettavano ardere.
Fanno le  fotocopie poi ci troviamo fuori a bere bene. Ci
chiamiamo “coscienti”. Mettono i piedi sul mio, vetro,
io chiedo “ora?” e loro compilano, non rispondono “Che?”

Ma se invece della rigenerazione ci fosse il marcimento?
Le cose come scorrono non sono necessariamente cattive ma cattive colpiscono la Maltagliata e nulla sa fare posto ad altro. E’ una tiritera dolente, si capisce.
Nel 1980 avremmo stabilito assieme che non si poteva agire e nel 1982 la dipendenza dal simulacro della figura amata avrebbe costruito la membrana fibrosa di una cisti così da rendere impermeabile una volta per tutte il nucleo di potenza. Cosa dire di una figura così finita?
Niente.
E’ niente la costruzione di una libertà asfittica. E tutto.
E’ tutto l’impero delle modalità in esistenza. E quasi: perché sempre dolente la visione sintetica ascesa sale e sbatte sulla costruzione condonata: è Alice nella casetta, infila un piede nella canna fumaria. Un minatore appena uscito  vorrebbe tornare nel buco. Isabella Mancolari sa cosa fare per vincersi e progetta un viaggio due per sei nella terra d’amleto il sentenziante. Ovunque ci sia stato dolore o mancanza o vergogna o divieto ci esplode e scaraventa motivi e senso. Come se davvero.
Davvero di sfortuna.
E fosse lì motore, il centro dello strumento. La membrana (ma è più una parete) non permette lo stabilirsi di modalità provvisorie e costruisce una strada traversa che assomiglia al delirio, anche pagando quel che c’è da pagare e continua a dirmi, la Maltagliata stronza, che non vuole marcire, trasfonde pus, denti rotti, fegataccio, flaccidume sgargiante, pericoli di vita, fuga stocastica, pene di esclusioni d’ordigni.
E diventerà qualcosa, per ciò?
No. No. NO. E che non vuole diventare niente, senti ‘sto delirio. E che farà senza tutto, senti la canzone.
Le diciamo che non è così, ‘sta scema, che così muore. Le diciamo della cura. L’alba che guarire. La notte che l’elabora. Il vento che sospesa. L’ordine di vivere, che ripone e semplifica.
Le diciamo che ci assomiglia. Che la piccola fatica è un destino. E il grande dolente una biglia lanciata sul muro dal bambino barato, una figurina panina sbregata, il premio d’argento appartenuto negato. Tutte le ciclamine focolarine di Cerna scattano quando arriva il pieno vero. Che sia una vita balenga va capito, ed è così che l’assestarsi fà.

Ma non c’è verso, la prepotente non paga. O pagherà le incomprensibili scadenze, fatte di corollari postille sequenze decreti e di parallassi spaccati in fila all’ordine, la composizione. E perde anche lei, il suo delirio perde, obbliga un luogo comune che balbetta, decide di una posizione sciancata che sistema stancamente la gente-così nel cavo laterale,  che ha l’istituito salvo, come un gruppo pizza mai sfamato sta in un centro di salute mentale.

E vorrò fare delle distinzioni:

1) la diversità che cogli non è l’intento, considerevole, di fare faccia e militare, che sennò sarebbe più indirizzato e consistente

2) non c’è nessun sintomo preciso che mi precisi, solo, che tu vedi, una speciola di stonatura tra il detto e l’ospite

3) accetti qualunque tipo di immagine accompagni l’impostazione, pur imponente, di concetti che anche soltanto  minimamente sfiorino le concezioni retrive del mondo che ti sei costruita

4)  dai la pappa ai porci, buoni porci, gentili

5) io non sono mai stata lì ma non te ne sei accorta perché non ti serviva

6) sei femminile perché ti so partecipe intera

7) e ridiventi maschile, perché si capisca bene: cerchi un diverso rotondo, un fatto strano vero; ma ti dimentichi il mondo che stupra il suo figlio migliore, perché lo vuole, intero, nella pancia e nel sonno. Lui non sa ancora in cosa consista il peso del tuo desiderio e si propone erotico adolescente spensierato senno. Tu lo scanni nel cortile perché non hai ragioni; nemmeno lui le ha, non le avete, non le abbiamo; siamo scannati abbuoni del deficiente oggi, scissi i diritti dai registi dei film "migliori"

8) ma ogni tempo ha un pegno

9) e questo, in particolare

10) e questo, perché non si vede bene, perché salta le parole le favole le stimmate

11) paga desiderio il potatore paga la rama paga l’albero paga la schiava paga il povero paga la legna paga il cardine paga la ragna paga la lama e paga il laccio paga la fine paga la strega paga il respiro paga la fine paga la fine paga la fine frittura saga

12) frittura sega

13) rompere all’anima le ossa perché non posso averla o rimanerle accanto, findivita, che mi estenui e mi estingua.