Aveva fatto tutto come si deve e per questo riteneva di dovere pretendere questo anche dagli altri.
Versava il soave gini nelle flutes come se non dovesse guardare in faccia nessuno mentre.
Schiacciava l’acceleratore con tutti quanti sopra come a cercar di dimostrare che le cose si facevano comunque.
Ripeteva le stesse frasi del padre e del marito e della madre e della sorella, indifferentemente.
Ripeteva le stesse frasi della moglie del padre dello zio e della madre di lui, quello che c’era in casa.
Ripeteva sorridendo, senza coscienza.
Ripeteva amabilmente, sbocconcellando.
Aveva fatto tutto proprio, non mancava quasi niente.
C’era una sorta di perfezione anoressica nella sua ingenuità guarnita.
Sapeva conquistarti con la grazia dell’avvicinamento per poi a piè pari saltarti via d’un boccone.
Corrispondevano silenzi soppesati e buone maniere in uso.
La vita era un affresco nel quale casomai andava aggiunto qualche personaggio secondario.
Non c’era competenza che potesse inficiare il preciso ordine delle cose.
Mostrare le sue parti poteva significare la loro cancellazione semidefinitiva.
Nel mondo alto e lungo, alto e lungo, grosso e cincio, stravasato, scioglieva.
Passivo aggressivo rimaneva in piedi davanti a quando tutti andavano.
Si ricordava sempre di ringraziare e ti faceva dimenticare.
Di esserti preoccupata per lei, povero tristo giglio.