Sono nata il diciassette settembre millesettecentocinquantuno a Kanchipuram. Govinda Puri, figlia del maremoto, non distante dal tempio di Parvati, non distante dalla palla di burro di Krishna. A lungo ho mietuto il grano con la mia famiglia, giorni e notti, e ho imparato a fare corde con la canapa.

Sposata a diciotto con una dote di tutto rispetto ( millenovecento rupie e due capre e sette sari) ho dato sei figli (quattro maschi due femmine) alla famiglia di mio marito e ora vengo nei recinti a fare collane di fiori per le puje e le commemorazioni. Il mio cane, Baubo, se la ride ancora della storia che ho raccontato ieri a Mahati, la mia sorella minore, quella della signora delle spezie – devimasala-  inciampata nella radice del mango.

Stasera faremo il fuoco accanto ai carri del nono giorno lunare di febbraio-marzo e la riracconterò. Nella mia città polverosa comunque il fuoco dura il tempo ch’io la racconti.

 


 

23/6/2005

Sono morta a Nalanda, mancava poco alla laurea. Sedevo accanto ad un uomo scuro quando vennero da me le streghe. Rifacendo il viaggio del ritorno incontro un’acre così tenera donna che si riprende il bambino – gioca ai dadi con la banda vicino alla spiaggia- e quell’altra pascola le bufale fin lì, le fa lavare dall’acqua del mare spumoso vicino all’europea in costume rosso (così ci è sembrato dalle foto)  e loro non vogliono entrare per cui usa un bastone delicatamente, si, ma poi mica tanto, si arrabbia, si imbroglia, poi però le bufale entrano nell’onda, prendono il fresco, si lavano quantevvero dio.

Rifaccio il percorso dell’andata, ecco, butto qua e là con i piedi le fini reti azzurre, le trapasso, raccolgo sassettini, fino al tempio lungo sulla spiaggia, Mammallapuram la destinata ai maremoti, non so poi se è successo monumento dell’umanità, protesi di pietra morbida alle cariatidi, baretti fighi che neanche a Boracay.

Mi fermo per la foto dove sistemano sari shocking e candele e birra nel menu, lui ha gli occhiali tondi che precedono una faccia, lei magliettina arancia e ci rivedremo alla fermata degli autobus per l’interno, forse le colline della transumanza degli inglesi. Ma forsennati passano quelli della bicicletta, fanno un comizio ogni sei ore, boia se gridano da certi altoparlanti, quali concetti quali fole quali sostanziali battiti, e radunano i miei fratelli le mie sorelle, due o tre zie, poi magari andiamo a guardarli quando erano in città dalla televisione di Siddha; Nalanda era il sognato allora.

Importa che il sottile dio dei transistor non condanni il fatto di non averti amato, Asimo, di  non avere accettato nella mia poca fortuna una pelle macchiata, un dito troppo piccolo, le unghie disegnate male, il naso grottesco. Al dio della piccola luce ritagliata sulla parete davanti non deve sfuggire che è stato un attimo l’averti e che ti ho benvoluto e difeso, sposato e gestito e fatto figliare, onorato nelle notti delle stelle di fragore come un marito, che sei stato un marito e padre e il dio davanti non vorrà dirmi che ho sbagliato se non hai mai avuto il mio dolore.

 


 

9/11/2005

 

Dopo la morte Faust viene accolto nel "coro dei beati infanti". Io non so se Goethe con questa singolare idea si riferisse agli Eroti sepolcrali antichi. La cosa non è impensabile. La figura del cucullatus ( cfr. Kerényi: non essere separati dalla non-esistenza e tuttavia esistere) indica il velato, cioè l’invisibile, il genius del trapassato che riappare ora nel coro infantile d’una nuova vita, circondato dalle figure marine dei delfini e delle divinità delle acque.

Il mare è il simbolo prediletto dell’inconscio, madre di tutto ciò che è vivo. Poiché il fanciullo in determinate contingenze (per esempio nel caso di Ermete e dei Dattili) (il nome Ermete significa cumulo di pietre ed è passato a indicare l’erma, che in età antichissima doveva essere solo una pietra ritta ed era spesso collocata sulle tombe) ha una stretta affinità con il fallo in quanto simbolo della procreazione, esso riappare anche nel fallo sepolcrale come simbolo di una rinnovata procreazione.

Il fanciullo quindi è anche renatus in novam infantiam. Non è soltanto un essere all’inizio, ma anche un essere della fine. L’essere dell’inizio era prima dell’uomo, l’essere della fine è dopo l’uomo. Questa tesi, psicologicamente parlando, significa che il fanciullo rappresenta simbolicamente l’essere preconscio e quello postconscio dell’uomo. Il suo essere preconscio è lo stato inconscio della piccolissima infanzia; il suo essere postconscio è un’anticipazione per analogiam della vita dopo la morte. In questa rappresentazione si esprime l’essenza completa della totalità psichica.

La totalità infatti non si limita alla sfera del conscio , ma include in sé anche tutta l’ indefinita e l’indefinibile estensione dell’inconscio. La totalità è perciò empiricamente di inestimabile ampiezza, più antica e più recente della coscienza che racchiude in sé nel tempo e nello spazio. Qui non si tratta di speculazione, bensì di immediata esperienza psichica. Il processo della coscienza non soltanto è costantemente accompagnato, ma è spesso anche guidato , alimentato e introdotto da processi inconsci.

Il fanciullo aveva una vita psichica prima ancora di avere coscienza. E l’adulto stesso dice e fa cose di cui soltanto più tardi capirà, se mai capirà, il significato. E tuttavia egli le dice e fa, come se lo comprendesse. I nostri sogni ci rivelano continuamente cose che esulano dalla nostra comprensione cosciente (perciò sono così utili nella terapia delle nevrosi). Da fonti ignote ci arrivano intuizioni e percezioni. Paure, umori, intenzioni, speranze ci sorprendono con una causalità assai poco evidente. Queste esperienze concrete sono alla base della nostra impressione di non conoscerci sufficientemente e del penoso sospetto di non essere al riparo dalle sorprese che noi stessi potremo causarci.

L’uomo primitivo, invece, non è per sé un enigma. Il problema di cosa sia l’uomo è sempre l’ultimo che ci poniamo. Ma per il primitivo lo psichico oltrepassa talmente la coscienza che l’esperienza di qualcosa di psichico che lo trascende gli è molto più familiare che a noi. La coscienza circondata, protetta, sostenuta o minacciata e ingannata da forze psichiche è un’esperienza primordiale dell’umanità. E’ quest’esperienza che si è proiettata nell’archetipo del fanciullo, il quale esprime la totalità dell’uomo.

Il fanciullo è l’abbandonato e l’esposto a tutto, e al tempo stesso il divinamente potente, l’inizio insignificante e dubbioso e la fine trionfante. L’"eterno fanciullo" nell’uomo è un’esperienza indescrivibile, un’incongruenza, uno svantaggio e una prerogativa divina, un imponderabile che determina il valore o il disvalore ultimo di una personalità.

C.G. Jung, da Psicologia dell’archetipo del Fanciullo , "Gli archetipi e l’inconscio collettivo" (op. 9), Bollati Boringhieri 1997, pp.170-172. 

 

 

 


 

 

    9/11/2005

  

  L’Es è assolutamente amorale, l’Io si sforza di essere morale, il Super-io può diventare ipermorale, e quindi crudele quanto solo l’Es può esserlo. (S.Freud, cit. da L’Io e l’Es)

Le strutture della mente (1923)  a snocciolarle mi fanno pensare a te. Che vai con chi vuoi fregandotene bellamente  e ti sforzi di non fare male a nessuno ma poi, ogni tanto, urti con le macchine contro qualcosa, e ti ammali e passi sere cupe che non puoi dormire, o albe, a rovistare nelle decisioni prese.
Sei così triadico! Ma anche sicuro di te, così che ti sembri uno solo, solo uno, quell’una faccia che pari davanti a chi che.
Ora, Anselmo, ti parlerò a lungo dell’Es. Parto con un esempio: ho desideri. Di Schiacciamento-Stritolamento-Abbracciatura.
Ad avvolgermi comprimendo solitamente c’è quel vestito scelto con metodo e raziocinio nel maxmara di via mazzini- il tubino nero che mi blocca la coscia ed il body che stringe e sottopone, la guepière, la cintura alta con la fibbia all’ultimo buco, la mini plastificata, il fuseau, il collant, la pancera-
La maxi stretta, la maglietta una taglia in meno, il ginsino, le decolletèe col tacco a spillo, il tailleur, il corpetto di raso, l’abito da sposa (quello fa un bel lavoro, t’incorpora come poco, t’inanella ed innalza, spinge dove deve e bilancia il peso in trascinamento.) Poi ecco:
hai presente il vitino della Barbie? Nella bambina il mito affusolato, quel desiderata, crea mostri sottili e, per forza, altissimi. Ho il desiderio di quel mostro, mi sogno pasta stirata da mattarelli, un pre-gnocco, una brisée assottigliata progressivamente dal tocco e nella giusta farina.
Una voglia immensa di afferramento, come la chiameresti tu? Un fondotinta spesso. I guanti fino al gomito. La giacchina. La borsina. L’orologio scomodo. Un anello, due, per dito. Mano destra e mano sinistra. Il collo attorcigliato da una serpentina d’oro. Piercing sulle commessure, ai lobi, alle narici, un marchio indelebile sulla pelle che mi disegni tutto lo stupore possibile, che si veda che voglio un contorno!
Allora, dice l’es, facciamoci ‘sto esterno- Abituiamolo al ritmo degli umori di stringimento e cattura- Schiavo nostro, voglio, servomeccanismo, spago, bondage, scotch-

 

 


 

 9/11/2005

 

CANTO DELL’ATTACCATA A TUTTO

Sono nato nell’antiest, nell’Ovestfalia. Una madrina maga mi ha regalato la maledizione del fuso ed ho fermato il tempo ai miei diciotto anni, un giovane passato di là secoli dopo pensava bastasse baciarmi la bocca del ghiaccio la bocca   blu.                    L’incantavo cantando lenti fado il principe guardiano, le nostre nozze ieros gamos fluivano nel sogno di assomigliarci ma si sentiva il peso dell’inventare, dormivamo poco, ormai, dormivamo male. Nella mia seconda reincarnazione ero una bimba scalza, passavo giorni grondanti nei bordelli del Siam abbracciata ad una sorellina, le braccia stente unite per le mani e le teste chine, disarmate del nostro sesso ora custodia di palline da ping pong ci sentivamo scorze dure, imponenti, talee l’una dell’altra nel mondo parallelo degli alberi.  

Infatti sull’albero più alto del giardino scabro di Madame costruivamo capannelli, casoline, nicchie di foglie di banano come i nidi delle rondini e come i nidi in genere. Venivamo imbeccate dal venturone a cavallette e morbidi lombrichi e semi di girasole e semi di miglio. Bevemmo gocce di diluvio setacciate dalle foglie inclinate incrociate incurvate a doccia poi ci acchiappavano e bevemmo rhum, almeno un po’ di quello aiuta a dimenticarsi dove corra il cuore. Ma non sono andata lontano, non più lontano del nido di saliva, e mi ha portata una malattia trasformativa. A dire questo di me:stavo rimorendo.  

 Ma non mi assomigliava alcuna paura e nel dimagrire e sciogliermi, nel dolore e negli organi che si inceppavano e promettevano e mantenevano nuovi umori non mi sentivo perduta anzi mi radicavo, perdevo le cose io c’ero e facevo la storia di quello sfacelo io c’ero e qualcosa di più, c’era un progetto: la costruzione di una casetta per grilli. Al signore del cielo il mio piccolo gioco ha dato almeno mille anni.

La terza volta sono stato il ragazzo dartagnan. Un moschettiere ardito. La mia spada divertiva il vento e longilineo e biondo e azzurro cavalcavo nelle diritture raccoglievo fili d’erba giravo indenne e imperterrito. Il ragazzo più bello, tadzio delle svezie per Visconti di Venezia, uno sguardo lungo, un collo di cigno, l’efebo selvatico che non si fa toccare, briccone, monello, intenso, la terza volta sono stato sinergico, imperturbabile, splendido nelle braccia e nel torace e nelle gambe e il disegno dello zigomo dell’addome dell’inguine il sedere asciutto che accompagna la schiena senza soluzione di continuità, l’arco delle sopracciglia, le ciglia curve, la bocca disegnata in broncio aperto, il ragazzo più bello, un formidabile incarnato, capelli forti e lunghi appena dietro le orecchie ciocche per caso sull’occhio unghie pulite alte semilune bellissime mani.