Io mi ricordo, domani saranno morti come oggi, lei che l’aspetta nel salone grande, con lunghi guanti e cappellino, Liza, un marito sbagliato, io che la porto a vedere i cadaveri della villa incendiata e la bruna azzurra nell’appartamento essenziale, blu pure certo lui ma con un essere puntuto e viscido che la avvinghia e sbava e ricordo gialli girati a colori per la televisione, ritratti di donna velata, bambole affogate nei lavabi, tristi uomini elefante bianconeri con musi deformati e l’accento sibilante, lei che si stende tra i due sul pavimento, sulla coperta, nel grande letto ornato con la cognata che tiene i conti fuori, lui che spacca la testa al bambino nella stanza, tenendolo per le gambe, il bimbo di Rosemary e quello enorme del regno, nei suoi sotterranei un buco proprio dentro il muro, dietro l’angolo di sinistra a metà del corridoio, il lago è quasi tutto ghiacciato (vero Sylvia?) (credevi davvero di poterlo proteggere?) e tu sai che non dovresti camminarci sopra (non nominare il nome di dio invano) ma proprio sopra la tua testolina cadrà il mattone dell’ultima scena, mentre la prima, la prima scena girata in Portogallo, luminosa, argentata, dietro deserto, inguainata, sfavilla e Alice gira ancora per le città, nei cinema di pomeriggio, sulla torre del convento di pomeriggio, negli appartamenti di Parigi nei pomeriggi, nel mondo di Brooklyn verso sera, ma io mi ricordo come fosse abbandonata ai piedi di quel matrimoniale e mentre la fottevo quando decise di lasciarmi e mentre l’inquilino del piano di sopra si barrica in casa ma la casa parla coi muri e l’inquilino soccombe, spara il colpo che deve, parla con la voce del bimbo tradito e mentre si lega ben bene il pianoforte alla caviglia un grande mare enorme lo spazzola via.

Sono una vecchia madre. Adesso ancora sveglia, ora che nelle pieghe progressive la notte si dispone a strati d’alba e si sentono fuori scrìcchioli d’uccelletti in tormentati gazoo mi sono distesa, mal corrispondente, in morbido delirio. Adesso immaginata molte volte sottile l’ansia del luogo non prevedo e non sento, ma si sovrappongono figure per sempre amate in andirivieni frenetico. Seduta davanti alla finestra della sala da pranzo, oramai immobile nella grassa attesa del prossimo round, il mio nipote più buono e che ha occhi solo per me ha solo per me gli occhi ha occhi grandi che parlano soli . Un piatto di minestra. Anca ancò emo magnà. Gea dal furbo sorriso.

Sono la vecchia madre, nella cosmogonia di Esiodo primaria cosa emersa da caos e ho generato sola Urano e il cielo stellato e le montagne e Ponto, seduta sulla sedia, poco assistita, all’ospedale di Negrar, tra le puerpere starnazzanti, staccato da me non ti sono riuscita a pensare ma premevi tanto e forte chissà che ti credevi. Che avresti scambiato files musicati su kazaalite? Che saresti partito carabiniere per l’Iraq sconquassato? Che ti avrebbero assunto supplente nelle classi di matematica nella scuola dei ripetenti? Che non trovavi la berlina adatta al tuo matrimonio ritardato? Che saresti stato amato dall’ultima delle tue mire? Che saresti partito per l’america per un posto certo da neuroradiologo? Che avresti trovato lavoro in cartiera e mai più altro? Che saresti entrato a piè pari nella vita disastrata della contessina accanita? Che avresti fatto strip umilianti per pagarti l’eroina? Che avresti aspettato dieci minuti dieci prima di parlare davanti a quella donna schifosa? Che avresti perso ogni voce, ogni voce possibile, in incastro stabile di prospettiva?

Mi passano vicino come se non avessi nome, ingombrante ed indesiderabile cosa che sono, ma per te sono stata importante, vero? mio tato? Che inveivi contro il fratellino urlante? Ed ero al centro del tuo mondo umido. Mio. So di non essere buona ma crocevia di spinte contrapponentesi e risultante vettoriale di forze sòliloque, so di non essere buona anche se Madre e Investita, mi viene in mente ora: non saprei dire bene quale fosse il desiderio di sempre. Avere una mia casa con l’uomo e avere dei bambini da lui. Questo potrebbe bastare. Necessità di consenso? I miei bambini ed io stessa abbiamo bisogno di venire riconosciuti dal paese. Ho capito meglio che tu sia morto in Grecia, meno che tuo fratello sia nato cerebropatico. Ed è tutto un uh uh. Ed ha quarant’anni suonati. E lo custodisce e lo cura sua sorella ma io, IO, sono madre di un handicappato. Lo dico ai vicini di casa prima di presentarmi. E’ una croce alla mia maternità gloriosa, al merito, certo, ma io non sono buona, desideravo gloriarmi di figliuomo nella reggia perchè il paese (Affi, quattromila abitanti, con Incaffi e la Cà Orsa i sta tuti ne na borsa) potesse dirmi che brava donna fossi, magari la migliore. Ora sono in carriera direzione santità, pensavo ad altro fasto ma può andare, tutto questo andrà.

Ecco, figli esausti, la vostra vecchia madre. Gea, Gaia, dal mio figlio maggiore ho generato i Titani, le Titanidi, i Ciclopi dal solo occhio e Crono. E l’ho stuzzicato, Crono-Saturno della melancolia, ad evirare il padre, mio figlio stesso, per fecondarmi ancora che dal suo sangue potente nascessero ninfe e giganti e vendetta (tutti nascosti nel ventre della terra li teneva questi bei figli del cielo). Dal mio figlio minore cinque divinità marine. E dall’inferno, il luogo più interno, un mostro alato con cento teste di serpente e le fiamme negli occhi e Echidna, ho fatto anche lei, l’ho fatta metà donna e metà povero, povero rettile.