Verde, verde, verde. Un piccolo riparo. Oh scuro! Oh musica! Chi è trasportato e mietuto e forse libero (liberato dalla strega della realizzazione, com’è difficile dirlo) inventa il jazz. Verde, brullo, verde. Verde verde verde. Una mia esistenza qualunque a cavallo dei motori.

Questo personaggio arriva che ha appena letto Schnitzler, Traumnovelle. Un filo addomesticato dal film del Kubrick, occhi chiusi spalancati. Non ipotechiamo il futuro, già. Albertine che mi scorri nel proust, uno sguardo tuo qua: questo personaggio ha.

1) Gli occhi chiusi spalancati. 2) Le labbra lunghe come a disegnare una foglia. 3) Una bizzarra appendice che gli parte dalle espressioni del viso, sempre mutevoli, veloci, cangianti e imbruttite quando la fotografia le blocca. 4) Un corpo matronale, largo ed espanso. 5) I capelli biondi e imbionditi dalle mêches che non smette di farsi fare. 6) La smorfia celinesca dell’insofferenza, sembra. Stampata. 7) Altro.

E’ verde, verde, verde, un minuscolo canto. Ha il pianoforte lungo dell’ Amos e del Battisti (le cose che pensano) e sta ascoltando Meneguzzi, il ragazzino dei sanremi, l’anno scorso, Musica, arrangiamenti apertura melodia e un giro che potrebbe esser di piano, appunto, ma così largo ma così largo.

E invece poi sono corde. Ma anche qui, rossa, rossa e rossa, la bella Chitarra s’imporpora. Avanza e si pone, metallica, preposta, diretta si accavalla senza fondersi, degregoreggiante in direstraits. Questo personaggio strano, invero, non utilizza l’estetica della nominazione dei Grandi. Arturo Benedetti Michelangeli e sua sorella.

E’ verde, verde, verde. A toccare la tradizione gli resta un’impronta che slangue, e sanguina e non lascia, bella, bella che mi farai morire e brutta, uh!, brutta che ti mollo nel fosso. La tradizione, e l’antitradizione tradizionale, ed i settori specialistici (Siciliano su Sette di Repubblica), il loro stigma. Brutta bestia stigma, stai inchiodato.

Lo sguardo diventa longilineo. Piccoli seni, lunghe braccia, stinchi aguzzi, lo sguardo trapassa e prende quello che ama, e non celebra. Leggete il blog uniformemente distribuito detto "Aurelio Valesi", fatevi un’idea della moltitudine, dei non mai molto nominati. Delle cose come vere. Delle sorprese che dal basso si innalzano e dall’alto si abbassano, Albertine!

Occhi chiusi spalancati. Andate da borderina che scocca percezioni intonandole ad una libertà sobria e alla bella intelligenza della parola, andate da iole! dal desiderio che scardina e s’immerge negli organi più o meno presenti, e da nerina accattate l’incendio rime-diato! Spalancati gli occhi chiusi, andate dalla zia che ve li bucherà.

E torna verde verde verde, perché mi hai lasciata Monica, davvero ero feroce, davvero cattiva? Ci si innamora di mostrine, non ci si sposa in queste perché l’amore depone, come un caldo bianchissimo mantello, sui compiti e sui ruoli una domanda incandescente, un fermo, un sigillo, un anello.

Esanimando…

1) Passava a deriva

la derviscia somala

lo sguardo sfronto e l’immillimetro.

Era pregressa nella storia porta

comunque rea del mondo che ripeteva alle sue nine.

 

Non dimentichiamoci che è stata:

così, dove toccava un verso

e ribaltava,

la sorella pagata della buona morta.

A fata ingrata.

 

L’albero è nel giardino, ci si gira attorno bene. E nella recinzione di lauro niente soffoca. Come un mattino di luglio l’erba solo poco bagnata le foglie sottili del pesco e la palla di luce che si allarga fanno pulizia al pensiero. Che è cupo, il mio, ciondola tra varie portate di gelo.

Pranzo così, a bocca chiusa e gli occhi aperti nella stanza buia. Sento fischiare i treni che arrivano in stazioni che non si ricordano. Vede, non c’è un oggetto preciso. Tutto è indistinto, lì, e vago, ghiaccio sciolto e riformato poi risciolto, un insettino intrappolato, poi nevischio e neve granulosa, sassi scheggiati fino alla terra nera. Alaskina.

Se dovessi scegliere parlerei di "desolazione". Benché la parola "cristallizzazione" possa andare bene, e forse anche "deprivazione" e "sconforto". No, ma le assicuro che sto piuttosto bene, lo vede l’albero? E il giardino? Lei non sa il piacere che mi dà ficcare le mani nella terra, siamo a luglio ricorda?, quindi le mani nella terra che ha quel profumo di fungo, di foglia macerata, quella morbida a sfumature di bruno, le radici delle piantine che sposto cose fine bianche delicate (mi capita anche di lavarle).

Ecco, non che sia una brava coltivatrice. Qui vivono bene se ci riescono soprattutto sole. Io ho questa cosa: che le lascio fare. Difficilmente poto. Concimo pacciamo pulisco pochissimo. Sporadicamente strapianto. Che mi sembrano tutte bellissime e ricolme di dignità d’esistenza. Anche se per questa mia cattiva perizia molte di loro muoiono, spesso  tra loro mangiandosi.

Si, non mi sembra di stare così bene, adesso. E poi è la desolazione un treno che fischia nella notte bianca una voce senza risposta e sogno una carta macerata stropicciata riaperta ha su tutte quelle venature violette è schifosa inscrivibile sogno che ridiventa candida assolutamente vuota.

Non ho l’oggetto. E’ una desolazione vacua, un posto. Senza nessuno dentro. Le ho già detto che ci sono state delle volte in cui ho voluto essere stretta, strizzata fino a quasi sentire male? Dice che è una cosa che si spande? Non avrebbe confini e così e così…è terribile. Non avrebbe confini da cui non avrebbe forma da cui non avrebbe contenuto da cui sarebbe niente. E com’è che la sento urlare, scusi?

Torniamo a luglio. Io non sono una che urla. Ragiono, parlo e sbotto, riesco a recitare: "Forse un mattino, andando in un’aria di vetro, arida, rivolgendomi, vedrò compirsi il miracolo:" Così bravo, così serio Montale. A chiedersi dove abbia trovato la dimensione terrificante, perché è d’accordo con me che questo è il centro della sua buona poesia. La percezione, come dire, di una zona perturbante.

Il nulla alle mie spalle, il vuoto dietro di me, con un terrore di ubriaco.  Sulla sedia, in piedi, questa è da recitarsi così, ai pranzi di Natale con la famiglia grande che ti darà il soldino. Bere è importante, bere è peccato e bere è desolante. Terrifica. Il movimento è quello di un qualcosa che ti prende ti butta in aria che poi cadi giù.

Distruttiva? Guardi, frega un cazzo. Com’è invece la storia della desolazione? So che porta dentro (vien da dentro?) un palpito come di risucchio, fa "fhfhfhfhf", provi a riempirlo di cose buone e consolanti e niente, non ne hai nessuna. E la storia dell’urlo, se ci pensa è strana. Sono io ad urlare, allora, dice, allora, ALLORA!

Le ripeto che a luglio io ho collezionato campi di grano maturo non ancora tagliati, e papaveri rossi spampanati col pistillo nerastro e semini dovunque, che tutti i bambini hanno giocato con me e ho disegnato moltitudini di grovigli indistricabili e conosco i testi delle canzoni più belle, parlo lingue cifrate e conosco i vicoli delle città incantanti e conosco i bar delle città incantanti a menadito, signore!

Cosa vuol dire "poi come s’uno schermo si accamperanno di gitto alberi case colli per l’inganno consueto"? Devo pensare che non crede dunque nell’autenticità della mia estate? Ma non s’è fatto dal niente il mondo nelle cosmogonie, quelle si, inventate?

Lasci, un momento di protesta. Mi piacciono le sue dita lunghe, la grande bocca che ingoia, i suoi tentacoli (ma quante braccia ha?), e come occupa bene tutta la stanza. Mi è sembrato così morbido e avvolgente sdraiarmi con lei e confondermi con lei, Fedor.

Lui.

Lui è scostante, lui è deciso, si muove lungo le linee del dare-duro.

Lui è, invece, tattico. Progetta per noi situazioni confacenti all’idea.

Lui è così adeso alle sue che dovrà portarle fino in fondo. Progetterà un suicidio, e lo eseguirà come si deve, firmando una carta che lo significherà altrimenti.

Lui ha invece idealizzato il dare-duro, nella sua indecifrabilità, il dio russo come sola possibile istanza, e lo vede traboccare e non capisce, “hai il tuo fardello”, gli dice, alla Tolkien, chissà poi se Dostov l’ha letto.

Lui, lui, lui è meravigliosamente anarchico. Non è chiaro dove troverà uno sbarramento alle sue imprese, mai profondamente orribili, ma consapevolmente disastrate, profittanti dell’umore debole della schiava. Abusante il potere understatement, lui leggiadro e senza costruzione d’onore, lui basale, a guardare in faccia i Tempi, Bakunin, Bakunin ma che sarai mai se sono io a trasformare le tue tirate in fatto concreto, detto, la mia Letteratura.

L’altro, lui, fa carte quarantotto e realizza. Omicidio, incendio e tranello. Petr. “Petr, diceva la nonna, mi passeresti il bicchier d’acqua?” ” Nonna, ‘sto cazzo, prenditelo” “Petr, perché rispondi così alla nonna?” “Nonna, ‘sto cazzo, zittiti” “Petr, dove finiremo così?” “Nonna, ‘sto cazzo, cos’hai fatto tu?”

E infatti questi astrusi genitori sembra abbiano deviato Petr degenerato apposta, apposta, vi dico! Le arti liberali! Il mondo che si espande e rompe limiti ed argini. Stepen lo dice, nella sua mansuetudine, che gli argini rompono. E che Dio non c’è. Ma proprio non c’E’. Petr definitivo, reciso, ha mosso le cose. E allora?

Ahi, Stepen vecchio transumante trasportante documenti sciolti pagati dalla tua bella aristocratica, ahi Stepen sulla strada di fango col cappello a larghe tese e il bastone e la valigia, ahi! Stefano sulla discesa! Le tue Europe sdrucciole, la tua voglia di possibilità. Stefano dell’arte estetica. Un figlio così?

Ma invece ha troppi strati addosso, Nicola. Liza violoncello gli ricama rimorsi ma lui non tutti li afferra. Si improvvisa duellante catastrofe ma mai che, lui che c’è, sublimi bene.

E’ una specie di sofisticato spaventapasseri. Non vi dirà mai niente, se non che siete stupidi.

Ed intelligentissimi, nel vostro Zar sinora.

 

Fantasie su Elisabeth

 

Mascouche!

Medichessa mia accoucheuse

con la foto del 90 piccolissima

intabarrata dal bac

e la foto del 2000 in copertina

larga, luminosa in Mendelssohn

che suoni in lui piano e forte

pelle brunita in occhio nero

biondissima in sole bimba cello.

E-li-sa-beth!

L’elegante amica del cercatore di luce

parla stasera al Club (e lo vedo

che non ti sei strafatta di molte

che i passi erano piani convinti

che non hai mai perso più niente):

lineare filante bellissima e

austera contro il lungo orecchino

la stoffa buona per i tuoi pantaloni

ed il mezzo pompelmo delle colazioni

nel mattino classico (tu l’entends, Sylvia?)

dopo la notte jazz.

 

(sola sveglia io a sentirti respirare nel profumo fumoso di tua sorella più grande)