Ma si ecche ci sarà mai di nuovo da dire, che tutto è stato detto, che tutto è stato fatto, ma si ma si.  Perdere tempo davanti allo schermo muto. Su radio tre fior di cervelli dal festival di filosofia di Modena Carpi Sassuolo ad esplorare i sistemi della fantasia-immagine, pare, la fantasia indissolubilmenete legata all’immagine. E quando arriva il canadese sonoro di turno è un rumorista, un doppiatore.

A dire che il suono della fantasia è rimasto appeso al naturalismo feroce e non può accoppiarsi alla musica, che senz’altro in un festival di filosofia ancora ancora l’immagine, ma la musica, ma la musica.

E’ delicata, vede. Ha le sue zone di potere, inattaccabili, vede. La siae, conosce il mostro? Ma conosce, porc’, ella, la via della catalogazione del potere cultural-artistico, o parlo con l’ennesima scuffietta deficente che gira per il mondo, dicevamo,  non conoscendo il suo potenziale velinume?

No perché, dire "ma guardi che in Inghilterra non quaglia", veda. A parte che l’Inghilterra non esiste. Dica Regno Unito, che fa più bella figura.

Guardi, nemmeno altrove, molli l’osso. Non esiste che lei venga qui a dirmi che il mondo è più elastico, più bellillo, più integrato, più sganasciante, più divertito. Non tiene, non funziona.

Che il mondo non significa niente, quello che significa, e domandi anche a loro, è quello che Ciccio Laspide detto "la storia del mondo culturale italiano" decide oggi per me. E oggi decide che è così, che giriamo. E che la musica non si mischia con il sonoro, con la sacr’arte del doppiaggio, e che se scrivo devo scrive i gialloneri, e che se faccio arte figurativa impicco i bambini e vado a Beijing, che se scrivo faccio due copie per Crocetti.

Insomma, la fantasia, la povera! E su rete cinque, qual canale, la bella matura napoletana che duetta con Bracchetti ingenioso, e son macchiette stilizzate, accattamenti. Provinciali boutades che andranno dove? Ah! Nell’emisfero del provinciale esposto.

Come tutte le belle voci e le belle speranze che ho sentite incapucciate da un sistema, anche grande, anche costoso!, che le copta per due lire d’audience e le manda al massacro comunicativo. La Farm gli Amici. Le radio anch’Io. Sappiamo.

Ma non c’è niente che freni la terribile bugia, serve a restare, del non aver più nulla da dire, ma proprio più nulla da dire, forse dall’Ariosto, forse da Modigliani, niente, più assolutamente niente, nessuna esperienza del mondo, nessuna immigrazione cospicua, nessuna cultura autonoma contemporanea, traduzioni su traduzioni, anche malfatte, di americani su americani, gente brava, russi, ucraini, mondo, kazaki, tagaki, israeliani, mondo, arabi, turchi, finlandesi, filippini che reinventano il cinema,  belgi del belgio che si spacca, quebecchesi, meravigliosi quebecchesi che sfrigolano, "nuova letteratura canadese", ah!, nuova, ma lo conoscete Bellow, o dobbiamo stare ancora qui a parlare di Dante?

Dante una pippa. Siamo aggrovigliati nel modo peggiore alle nostre istituzioni arcaiche, e cosa riformi, il narcisismo? Il sentimento di inferiorità? Il vuoto? Grazie a dio il nostro papa tedesco ha ancora qualcosa, del suo cementato ardire, monoteistico e zicuro, ma noi? Operai della scienza, questo si, e poi più niente. Sono i francesi a parlare dell’India. E gli statunitensi a disfare e rifare la psicanalisi. E gli slavi a fare la poesia. E quelli che adesso Tiblisi diventerà un forno a portare avanti la sociologia, sono gli Spagnoli a provare l’architettura e ad impugnare le città, e sono gli inglesi, tanto per cambiare, a dare senso pulsante alle nascite. Ma tanto.  Non è la merda Nazione che volevo discutere.

E’ la merda Stato d’Italia, il suo fragore insopportabile, romanicatafalchi dappertutto, stronzate come se piovesse, nessun discorso, colonia d’america e quattro che ci provano ma il suono è sgonfio.

E non mi chiederete mai di ringraziare qualcuno, questo è sicuro porci, che la bellezza e lo spessore li ho trovati da me.

Diglielo, Sabrina.

 

Il cielo sbatte come dondola. Quelle nuvole pesissime (koch) s’impiccano all’azzuro e restituiscono chiarezza e patinatura all’insieme del quadro dal parabrezza scheggiato mentre arrivi senza fretta a Caprino, con la tua bella coda dietro (paola) e con il mondo baldo in cuore, giuliva e cupa angiolina sgravata da poco.

La grandine ha spaccato il mais e tutti i butti del vino. Come dire che faremo senza eucaristia, senzafede ; la Sgravata parla mentre guida e mentre pensa a questo, lo Scultore ascolta ma non ascolta [dice che è bello farsi portare (battisti)] e prova tutti i pulsanti del cruscotto, tira su e giù i finestrini elettrici, fa così insomma.

Ora una tirata sui film che propone Ghezzi alle tipo due del mattino in questi adesso umidi settembri deve per forza trasmettere l’impulso al movimento, uno qualunque. A lei però interessa: ieri sera. Non avevano ancora finito di distruggere il casotto alle cinque e ventidue. Heremias.

E s’incanta davanti a questa scoperta, che un’immagine che dura da venti minuti praticamente ferma, ma siamo disabituati, si muovono solo le foglie davanti e sembra che parlino loro, col vento ecco, ferma è ferma, si, ogni tre, quattro minuti c’è un leggerissimo cambiamento d’inquadratura, impercettibile, che l’immagine quasi ferma produca movimento interno.

C’è il matto che guarda da fuori, dopo un’ora e un quarto che l’hai guardato tu. E’ lui ora che guarda te, dietro il reticolato, nel boschetto filippino, vede arrivare le macchine le biciclette e le bufale e i ragazzini senza gli ombrelli, poi quelli sull’auto che scendono e spaccano. Mezz’ora di piscio sputo bomboletta merde birra pastiglie fumo giravolte, un youtube da dietro il filo del bosco, il bullo sporcaccione e il matto che lo guarda, la sospensione dentro, una fanciullezza estrema sciolta in acido (impressioni) ma la sospensione dentro.

E’ la realtà che scorre e segue il tempo che passa e non s’inventa storie. E’ quello che succede senza costruzione di nessi, quando davanti è morbido e tangibile e nessuno è il riferimento, ma lascia stare la perdita di punti fissi sovrastrutturale e il suo lamento, appunto! Nessun riferimento, tu nel mondo che si lascia acchiappare o guardare e tu guardato e acchiappato, la cinepresa come cosa semifissa , nessuna scrittura.

Lav Diaz, autore di Heremias, Filippine 2006, 660 minuti.

 


 

A rigor di cronaca aggiungo: (quanta bella roba!)

il manifesto del 10 Settembre 2008
IL FILM · «Melancholia» dalla durata impossibile, firmata da Lav Diaz
Tra rovine psichiche e estasi, i ribelli filippini che ipnotizzano
Rinaldo Censi
Venezia

Più ci si pensa e più appare curiosa la metamorfosi di Lav Diaz, questo piccolo cineasta dalla lunga criniera, un guitar hero ossessionato dal feedback , qualcuno che ha mosso i primi passi nel cinema commerciale filippino realizzando film pito-pito , produzioni low budget, girate e montante nel giro di due settimane, per poi giungere a realizzare magnifici corpus filmici dalla durata impossibile: veri e propri flussi visivi capaci di captare i magmatici movimenti dell’anima che riverberano e si materializzano nel suo paese, le Filippine. In Batang West Side (2002), le ore di proiezione sono solo cinque, per una detection incentrata sulla pulsione migratoria dei filippini verso gli Stati Uniti. Nel 2005 appare quello che avrebbe dovuto essere il suo primo film: Evolution of a Filippino Family , progetto decennale e fluviale: undici ore e mezza per ricostruire e incantare, raccontando le vicende dolorose di una famiglia filippina e, dietro a queste, quelle di un intero paese. Vengono poi Heremias (2006), il tellurico Death in the Land of Encantos (2007), 540 minuti in cui la bellezza e l’orrore convivono, fanno cordata, insinuandosi insieme alla piccola camera digitale di Diaz nella zona di Bicol, est Filippine, colpita da un tifone. Filmato in bianco e nero, Melancholia ipnotizza, spiazza per le sue invenzioni: è un film politico, per questo urgente. Bene ha fatto dunque la giuria della sezione Orizzonti capitanata da Chantal Akerman a premiarlo come miglior lavoro di finzione. Dietro la storia di una persecuzione politica (il regime filippino e la pulizia etnica dei suoi elementi considerati sovversivi, specie se comunisti) si muove un organismo complesso, una specie di fiore, una pianta esotica in perenne germoglio, che muta forma, specie, conformazione. Un film filippino di otto ore può interessare? Più o meno di un film etiope? Altra questione urgente, su cui sarebbe il caso di riflettere. Non ora, però. Nessuna polemica può smorzare la forza, il magnetismo che questo organismo in movimento sprigiona. Assassini politici, dunque. E una strana forma di malinconia che affetta gli abitanti del paese: accidia, demoni atrabiliari. Senso di abbandono. Se parlavamo di organismo, è perché Melancholia lascia crescere un possente sistema che oscilla tra la microstoria di tre attivisti in un movimento rivoluzionario, ora in clandestinità sull’isola di Sagada, e quella macro, espansa, che riguarda un intero paese. La persecuzione, il senso di oppressione e minaccia, da una parte. Dall’altra la malinconia. Due strutture comunicanti? «Quando abbiamo infine messo piede a Sagada, in un giorno freddissimo, ho compreso che la mia storia doveva avere a che vedere con la malinconia, la tristezza profonda, il dolore, la solitudine. E poi, il personaggio di Julian Tomas è arrivato, insieme al suo radicale processo per la cura della malinconia attraverso l’immersione in un personaggio», afferma Lav Diaz. Basta una sola inquadratura del film per assecondare quello che somiglia ad un invito. È il tempo necessario perché il nostro respiro, il nostro organismo entri, si acclimati a quello di questa pianta colossale, in modo da trovare la medesima respirazione, immergendosi nel flusso delle lunghe inquadrature. Lo stupore verrà dopo, insieme alla sorpresa. Ci vogliono almeno tre ore di proiezione per afferrare e apprezzare in pieno lo svelamento che permette al film di mutare forma davanti ai nostri occhi. Sono tre ore spese bene. Quella che sembra la storia di una prostituta, di una suora e di un magnaccia, si schiude improvvisamente davanti ai nostri occhi. Salta l’immedesimazione con le sorti dei personaggi. Perché qui non ci sono personaggi, ma solo figure mobili, processi di immersione che si interrompono. Questo prevede la cura professata dallo scrittore Julian Tomas, fissata sulle pagine di un libro intitolato appunto Melancholia . Fragranza della pura invenzione cinematografica: la discesa in uno stato di ipnosi vigile, puntellata da scarti improvvisi, sviamenti, momenti di puro inabissamento narrativo e sensoriale. Melancholia è un film in stato di grazia, dove si commercia con i propri fantasmi; un film fatto di improvvise estasi, ricordi indelebili, storie terribili e rovine psichiche: una donna che canta nella giungla, un uomo braccato, sul bordo di un fiume, che strappa le pagine di un diario, sotto la pioggia persistente. Le onde del mare. La maestosa bellezza di queste immagini, l’orrore per ciò che è scomparso, o sepolto: un teschio che emerge dal terreno. Questo film è un lungo e maestoso riverbero, simile a quello distorto che emerge dalla chitarra dello stesso regista Diaz in una sequenza del film. Il caos sonoro, la dissonanza, la materia sonica: il dolore e l’insensatezza trovano qui un’improvvisa forma di emersione. O una valvola di sfogo?

Era il cane a cui avevano tagliato le canne.

Era l’osseto il ceceno l’afgano impelagati.

Era la musica di ritorno del quarto d’ora di gloria.

Era l’eroina mischiata di a un bel rave giocare.

Era la cangiante struttura dell’apocrifo ratto.

Era il sempre nel mezzogiorno dell’indice.

Era il bisogno d’uno e solo, d’uno e solo, duro.

Era il cuoco di Salò che prepara la pasta alle lucciole.

Era la morte vera con le zanne di fuore.

Era la morte, vera, senza niente da dire.

Erano entrambe: la solita cosa che potentemente affiora dalla palla quieta del vivere.

Era il dio buttafuoco.

Era la dea corona.

Era la bellezza bambina.

Era la porca matrona che la divora.

Era che il porco è uno e abita dentro la bellina.

Era che il diavolo sbrana per chi vorrebbe, mille operosetti ogni mattina.

Era la rima, a fare il verso alla mannaia delle madri.

Erano le madri inginocchiate ardenti.

Era il pregare la distruzione degli altari degli altri.

Era sbattere il pugno sulle tavole dei denti.

Erano i denti di chi ci aveva mangiato l’amore.

Era l’amore che ci aveva dato qualcosa da succhiare.

Era quel latte buono solo per noi rosellini porcelli.

Era prima di tutto, era sempre, era il dio dei furori.

Era il cane degli altri che abbaia la notte di fuori.