Una pietra miliare nella nostra letteratura

pppind.jpgdi E. De Angelis
[da L’Indice, 1993, n. 2, recensione pubblicata per l’edizione del 1992]

Al momento di leggere queste pagine il lettore è certamente già in possesso di alcune informazioni. Sa per esempio che il romanzo è stato scritto dal 1972 alla morte dell’autore, ma sa soprattutto che esso è un frammento; colossale frammento di 547 pagine a stampa ma pur sempre frammento. Sa anche che frammento non significa qui soltanto che manca il finale (altro che finale! erano previste 2000 pagine complessive) ma anche che mancano dei raccordi tra i frammenti presenti e che il loro stadio di elaborazione è molto vario.
Ma forse occorre insistere su due cose. Petrolio voleva essere un romanzo di frammenti. "Tali frammenti" dovevano essere disposti "in paragrafi ordinati dal curatore". La seconda cosa da ricordare è che Pasolini prevedeva un complesso gioco autoriale.

L’opera doveva essere finta come edizione critica di un testo presente in più manoscritti, concordanti e discordanti, tanto autentici quanto apocrifi. I frammenti dovevano essere legati da un curatore che riempiva con materiale storico le vaste lacune del libro; il tutto, peraltro senza arrivare a certezze, poiché "il carattere frammentario dell’insieme fa sì che certi ‘pezzi narrativi’ siano in sé perfetti, ma non si possa capire per esempio, se si tratta di fatti reali di sogni o di congetture fatte da qualche personaggio".
Di tutto ciò non si è però realizzato nulla di nulla.
Potrebbe pertanto nascere la tentazione di vedere questo romanzo (per usare un’espressione tanto in voga negli ultimi tempi) come il romanzo che non c’è. Per fortuna è facile resistere a questa tentazione: il romanzo forse non c’è, ma quel che c’è (comunque lo si voglia chiamare) è a tratti entusiasmante e sempre interessante. Pasolini avrebbe voluto dare ancora di più: uno sdoppiamento stilistico, una molteplicità di punti di vista, una stratificazione di generi, una moltiplicazione di piani che andasse di pari passo con la loro generale messa in discussione. Tutto ciò sembra fosse intenzionato a mimare quello che ora si legge come contenuto. Ma l’importanza di quel che c’è richiede che lo si giudichi senza crollare sotto i rimpianti per quel che non c’è. È vero che non sempre i frammenti sono sviluppati, non sempre sono riusciti; eppure ciò conta meno dei risultati ottenuti, tale è il loro livello.
Per di più, nel lettore s’insinua un dubbio. Qualche cenno che vada nella direzione di fondare quella molteplicità-sospensione che si diceva, nel materiale rimasto c’è: si narra dello smarrimento di una valigia con verbale e "questo fatto pone il racconto nell’Ordine dell”illeggibile’, e la sua leggibilità è dunque artefatta… il mio dovere di scrittore è quello di fondare ex novo la mia scrittura" e affrontare un racconto in cui tutto sia "greve allegoria, quasi medioevale (appunto illeggibile)" (p. 48). Il verbale smarrito (anzi rubato) viene poi ritrovato insieme con una bibliotechina (il che offre occasione per riprendere un così amato topos della letteratura moderna: la descrizione di una biblioteca, pp. 86-87). Tuttavia questi spunti per il progetto multistilistico ecc. non hanno un seguito.
Non sembra dunque che la volontà di Pasolini in questa direzione fosse molto forte; ha trovato modo di scrivere tante cose per questo romanzo, niente però che avesse a che fare con quel proposito. Resta l’ipotesi di uno stile da realizzare in due tempi; non so quanto sia credibile. Allo stato attuale, comunque, resta quella dichiarazione di volontà; allo stato attuale (l’unico del quale possiamo giudicare) quella dichiarazione rientra negli interventi autoriali e dunque nella dimensione saggistico-giudicante, cioè in una delle dimensioni che compongono il romanzo.
In quel che c’è, il libro vuole comunque essere molte cose. Innanzi tutto uno spaccato politico-ideologico-culturale della sua epoca. Qui ci viene incontro il Pasolini – affascinante e incredibile – che vede l’inferno presente e crede in un paradiso perduto. È bene che il lettore sia avvertito di un pregiudizio del recensore: con questo Pasolini non riesco a conciliarmi; l’inferno mi pare sempre un po’ diverso da come lo vede lui e il paradiso non c’è mai stato. Siccome il suo inferno – come quello di ogni religione – si misura sul suo paradiso, anche il primo rischia di diventare incredibile; il che sarebbe un bel guaio sia per l’inferno sia per la realtà. Il male è colpevole per aver distrutto il paradiso, il diavolo è colpevole per aver fatto chiudere l’Eden. Tutto esaurito, sull’Eden si costruiscono quartieri di periferia con condomini. E ciò dimostra l’esistenza del diavolo. La ‘historia rerum gestarum’ consiste nella lotta del diavolo con Dio. Vince il diavolo, di Dio c’è ancora qualche traccia nei corpi terzomondisti-sottoproletari-reietti; ma questi sono poi più un ricordo che non carne e ossa. Sarà opportuno ripetere (a vantaggio di lettori non mai familiarizzati con questa prospettiva) che quel mondo pasoliniano non è da vedere alla maniera degli antropologi, come mondo di una cultura funzionante con leggi proprie e a proposito del quale bisogna ripensare dall’interno (cioè mettendo quanto più si può tra parentesi il nostro punto di vista) i criteri di giudizio. No. Per Pasolini quello è un mondo di valori, andato distrutto non solo per se stesso ma anche per noi; dunque costituiva un deposito di valori, una riserva ormai inesistente a livello collettivo. A tale livello pare ci sia qualcosa da sperare solo dal terzo mondo: l’osmosi tra le culture resta possibile attraverso il sesso (p. 158).
Ma attraverso il sesso – e dunque a livello individuale – sembra possibile qualche recupero anche all’interno del nostro mondo, e più precisamente all’interno delle sue differenze culturali: scomparse a livello collettivo, i corpi sembrano però conservarne qualche traccia: questa non arriva più a formare una cultura, tuttavia le tracce sono più presenti tra coloro che almeno discendono dalla cultura popolare e sottoproletaria. Qui il libro si manifesta come un libro d’amore. E qui è sublime.
L’amore ama la ripetizione. E le storie d’amore di questo libro si ripetono, tutte uguali e tutte diverse, tutte insistendo sullo stesso fremito, sullo stesso mistero, sulla stessa finale estraneità dei partecipanti. Un frammento lunghissimo (29 pagine da p. 201) è tutto fatto esso stesso di ripetizioni. La ripetizione è un mezzo stilistico amato dall’epica. Tante parti di questo libro sono fatte dalla ripetizione epica dell’atto d’amore. Ma l’epica è oggi tanto poco credibile quanto la fusione lirica nell’atto d’amore. Ecco che allora mediazione, interruzione e simbolo sono chiamati a dare una mano. Buona parte dei racconti sono introdotti da una voce narrante, in aggiunta a quella dell’autore. Nella maniera più semplice ciò avviene nel ciclo di storie che dovrebbero essere varianti di una storia prima dedicata a un colpo di stato fallito; ma i titoli di fatto messi lasciano intitolare il ciclo – opportunamente – in modo diverso, e cioè ciclo dell”epoché’; una nota (p. 453) spiega che l’epoché è il blocco conseguente alla via intermedia fra le due: creare il personaggio con la divisione di una persona in due (e per conseguenza si ha l’ordine e la morte), oppure creare un personaggio come sintesi di un’infinità di personaggi ovvero un’infinità di personaggi dalla polverizzazione di uno solo (e per conseguenza si ha l’ordine e la vita). Tali racconti sono introdotti da narratori, come nel Decamerone o come in Sade, esplicitamente citato. La ripetizione è qui dichiarata, esibita e mediata. Nel caso specifico essa si presenta come variazione. Come questo dovevano esserci altri cicli; uno è dato nel primo inizio (p. 128). Altri casi di mediazione sono più complessi: un sogno, una visione. Ma si tratta comunque di racconti introdotti. E ripetuti a più piani: lo sdoppiamento o il raddoppio è sia dentro i racconti mediati sia nel racconto generale entro cui i cicli sono contenuti: Dio e diavolo, un padre e due figlie, due padri e due figli e via complicando nei racconti interni; Carlo e il suo corpo, Carlo Tetis e Carlo Polis, Carlo uomo e Carlo donna nel racconto esterno. Quest’ultimo è mediato dalla voce narrante principale, che esercita massicci interventi.
Questa epica fittizia, distaccata, citata ha per contenuto – in più di un caso – dei racconti d’amore; ciò vale meno per i racconti interni ma certo per gran parte del racconto esterno. È un amore da inferno, violento e subito. Ma è amore. È rapporto di corpi. Ma di corpi non comunicanti; è fittizio, egoistico, simbolico. I corpi stessi sono simboli. E sono simboli i racconti, spesso dichiarati come tali. Tutto il romanzo obbedisce del resto a un’"idea simbolico-allegorica" (p. 181), cui le "folate di vita" (ibid.) fanno a volte da contrappunto ma più spesso – e anzi quasi sempre – da supporto. I cicli, i racconti simbolici, lo stesso racconto esterno sono racconti di una ricerca: una larga parte di quest’ultimo doveva essere ricalcata sugli Argonauti di Apollonio Rodio; quel che ne è stato scritto è una serie di appunti lampeggianti cui l’incompiutezza – se è tale – e l’apparente provvisorietà aggiungono il fascino che comunicano la sorpresa e la folla di sensazioni e rivelazioni.
Simbolici sono i corpi, simbolici sono i racconti e simboli produce la stessa interruzione dei racconti. È un simbolismo che si produce per accumulo, come in un racconto compiuto il profilarsi di un motivo troppo denso di significato, troppo inesauribile per essere semplicemente motivo. L’acme viene sempre rimandata e dunque sempre riproposta daccapo. I racconti sono ripetitivi così come ripetitivo è l’atto d’amore. I racconti si interrompono così come l’atto d’amore non è conclusivo ma lascia l’amante regolarmente solo. Pasolini ha scritto sì molto meno delle 2000 pagine che si proponeva, ma non facciamo fatica a convincerci che nel romanzo c’era posto per 2000 o per infinite pagine: l’ossessiva variazione sul tema non ammette finale ma non più che un’interruzione ultima. I racconti interni si interrompono dichiaratamente, non per accidente; alla fine risultano "delusori" (p. 170), "puri enigmi" (p. 136), forma dalla conoscenza illusoria (p. 410) o – per dirla ‘ore rotundo’ – ‘desinunt in piscem’ (p. 420). Sono tutti racconti incoativi, non esecutivi. La cosa singolare è che lo stesso succede ai racconti incompiuti; cioè non a quelli interrotti dichiaratamente perché quello è il loro modo di terminare, ma a quelli lasciati in sospeso: la stupenda storia di Carmelo è rimasta incompiuta e gli appunti che ne profilano la continuazione non risultano per nulla convincenti. Ma la storia di Carlo e Carmelo si interrompe al modo delle altre storie; e grazie al suo interrompersi Carlo si trova nella solitudine che gli è necessaria "perché il mondo sia suo" (p. 314). Il frammento è la dimensione imprescindibile di questo romanzo; un suo completamento avrebbe di certo eliminato incoerenze e parti meno elaborate, avrebbe aggiunto chissà quante belle cose. Ma non è da espungere il sospetto che avrebbe rischiato di apportare più di un peggioramento. Comunque sia (ipotesi e speculazioni a parte, a cominciare dalle mie), la collazione delle interruzioni – quelle programmate e quelle accidentali – permette di vedere che tipo di frammento interessava a Pasolini, che cosa aveva in mente quando nei suoi appunti programmatici parlava di romanzo fatto di frammenti: l’idea germinale, il simbolo, la "folata di vita" puntuale, l’impiantarsi senza realizzarsi in una serie di conseguenze distesamente narrate, il lampeggiare di corpi e di cose che non si esauriscono. In questo, Pasolini è lirico e non epico, l’epica è demandata all’esterno, a narratori che intervengono a distaccare l’impossibile salvezza lirica, ben assecondati dalle interruzioni e dai finali "delusori". Sono traducibili questi simboli? Sì e no. Sì, nella loro parte più caduca: per esempio traducibili in quello che Pasolini stesso chiama "il mito del popolo" (p. 285), la credenza del quale attribuisce a un personaggio mentre il mio pregiudizio di recensore me la fa attribuire a Pasolini stesso. No, nella loro parte simbolica e dunque non esauribile in un concetto: sono godimenti diretti della situazione e della carne, che vogliono essere ripetuti. Perciò "Petrolio", libro lirico nella sua essenza, è sempre al bivio tra manifesto ed epica. Chi lo mantiene su questo bivio, e dunque lo propone e lo rilancia ogni volta, è la voce narrante. Con la sua recitazione, essa impedisce comunque la soluzione (perfino oltre le interruzioni) poiché richiama l’attenzione su se stessa, sul suo atto di porre; l’allontana dal materiale per richiamarla sull’atto che lo costituisce. La traducibilità dei simboli si fa meno credibile perfino quando vorrebbe esserci, perché è una traduzione operata da quella voce, protagonista della traduzione e dunque oggetto di giudizio insieme con la sua opera di traduttrice; e comunque la traduzione, che vorrebbe esserci, di fatto nemmeno c’è : i racconti dell”epoché’ dovrebbero concludersi con il racconto delle stragi intese come loro traduzione; esso però s’interrompe (p. 451) e quel che si legge molte pagine dopo (476 sgg.) è una ripresa dell’andamento epico-lirico. In com penso – e a danno della traducibilità – il godimento si fa più certo perché è il godimento di quella voce: alla sua verità si può non credere, al suo godere non si può fare a meno di credere.
Le voci recitanti sono personaggi del romanzo. Con la loro molteplicità, cioè col loro ripetere moltissime volte il modulo, sono talmente straripanti da risucchiare nel loro seno, come non più che ‘primus inter pares’, anche l’"autore dell’edizione critica" il narratore che allo stato delle cose non sempre è possibile distinguere dall’autore del romanzo. (Tale indistinzione la vedo come uno dei pregi del libro: libro di frammenti, libro di indistinzioni, questo romanzo è l’unico romanzo romantico della letteratura italiana, che non ha conosciuto un romanticismo vero. Sia detto tra parentesi). L’intervento di tale autore propone prepotentemente la forma del saggio tra le forme del romanzo. In tal modo il soggettivismo della voce autoriale mette ulteriormente in forse l’epicità del romanzo e addirittura – in un gioco al quadrato – mette in forse almeno tutta la dimensione della stessa soggettività saggistica, poiché questa diventa parte del romanzo, materiale che dobbiamo ricondurre a sua volta all’interpretazione invece che obbedirgli come dispensatore di concetti. In questo senso importa meno l’ideologia del saggio e del saggista quanto invece la presenza di una voce – recitante tra le altre – che propone il saggio. Così la voce autoriale, personaggio tra i personaggi, acquista un corpo, il corpo della voce recitante. È però un corpo ridondante, senza ‘vis à vis’: la voce autorial-recitante infatti, sovrasta tutto, è staccata rispetto a tutto il resto. Una definizione di non so più quale autore greco vuole che la tragedia sia tragedia di corpi; dunque ne occorre più di uno. Ma la voce, onnipresente, non soltanto non ha controparti e dunque non si propone come parte fra altre in una tragedia: oltre a questo, essa esclude la tragedia anche dall’interno del narrato. Con la sua onnipresenza, infatti, ci rassicura sull’esito, e cioè ci assicura che – qualunque cosa accada – essa sopravvivrà. Ma soprattutto, nella fattispecie, ci descrive corpi in cui la tragedia non può avvenire poiché ci descrive corpi che non sono corpi, ci descrive corpi inesistenti di protagonisti. Questa è la sorte del corpo di Carlo, corpo che non può essere amato perché inesistente, corpo che non può essere amato e che dunque è inesistente (p. 317). I corpi veri sono gli altri, lontani; e così i corpi non sono corpi tragici ma corpi amorosi. L’amore sa "il nulla del possesso" e vuol vederlo da tutti i lati, così come vuole non vederlo; e pertanto si ripete all’infinito. Il nulla del possesso ha il suo ‘pendant’ negli sdoppiamenti e nei raddoppi dei corpi. La dissociazione-ordine-leggibilità, accanto all’ossessione/frantumazione dell’identità-disordine-illeggibilità (con mescolamenti vari, p. 182) vanno di pari passo col moltiplicarsi dei racconti e dei loro piani, con la mediazione così come con l’immediatezza del narrato e con la frantumazione dell’intero. La forma narrativa – proprio quella che c’è, indipendentemente da quella che doveva esserci – è dunque omogenea alla concezione del romanzo – del più bel romanzo di Pasolini, di una pietra miliare nella nostra letteratura.

(trascritto dai Miserabili di Genna)