Non si riesce a pulire niente. Gli angoli sono troppo lontani e con la ramazza non si toglie bene dagli angoli. E’ una fatica terrificante, il braccio non ci arriva come dovrebbe per fare un lavoro come si deve, la testa deve venire praticamente conficcata nello spazio minimo del mobile che contiene il lavello. Tutto quel nero di polvere e residui di chissàcche impantanato dall’acqua che talvolta cade nei giorni in cui non si pensa a pulire perché c’è altro: abbiamo il prodotto, vero, ma inclinate prone distese sul fianco il beccuccio s’ingorga, lo schizzo non esce.
Non si riesce a pulire niente. Una claustrofobia chimica mentre con il corpo provi ad arrivarci e la testa è sotto con te. In queste immersioni detestate, nello sforzo, nel premere, lo straccetto sporco risporca. Ne dovresti cambiare almeno tre, quello che toglie il grosso, quello che assorbe, quello che risciacqua, quello che asciuga. Quattro, toh. A chi piaceva questa cosa che ora perfino vomito, con il cardias ribaltato e i tessutini esofagei che fan quel che si può in ambiente acido?
A Frieda, ecco, a Frieda piaceva. Adesso la cerco, quella porca serva.

La cerco nel Castello. Ma è perduta. Kafka la continua a nominare, è lei che blocca K. nella sua espansione prima con l’amore sul pavimento, sulle pozzette di birra. Sostanzialmente è quella che gli apre il mondo evolutivo chiudendoglielo, si riconosce in lei quasi da subito e nella ragazza che passa dalla stalla all’osteria rintraccia l’ambizione al successo che gli è propria ma la disconosce alla prima abiura ("Sono con l’agrimensore!") perchè amare lei che "lo seguirebbe dovunque" significa fermarsi nel mondo minimo, quello che fanno tutti e quello in cui nessuno cresce. E strana legge del padre.
Insomma, Frieda continua a pulire, rassettare, combinare, lo fa gratis e lo fa pagata, forza lavoro invincibile e senza nome, che sistema tutto proprio; abbiamo le mansioni del disbrigo e dell’aggancio, della rifinitura e del sollevamento, del rendere praticabile. La preparazione al lavoro/bisogno dell’altro e l’asporto della lordura derivata.
Con allegria. Ma la Frieda del villaggio del caposezione Klamm, occhi di padrona, mi sfugge e non trovo in lei il piacere nell’umiliazione che cercavo. Lei è la figlietta dell’ostessa, vicedonna di capo. Associo in continuazione con Alexanderplatz (e ti piaceva spolverare, fare i letti poi restartene in disparte come vera principessa prigioniera del suo film, e aspetti all’angolo con Marlene…) e non mi risolvo.

Invece parlano l’ago e il coltello:





Da parte a parte. E parte:

prendono steli metallici

i manovali del cantiere, e le sveltine

della manovia, alle macchine

o chinati su arrotanti

ruote abrasive

e nelle forgie e nelle acciaierie

costruiscono attrezzi.

Le loro punte hanno voluto

cesellare il mondo, hanno

cercato dove poterlo trovare che non fosse

solo "quanto gli saltasse addosso"

e una sospensione.

Le loro punte.

Una sospensione.

(Macellaia delle primule

una forbice nelle tue mani

regalo di inverni scontenti;

non lascerò mai una forbice nelle tue

mani tristissime fredde.

Piene d’acqua ritenuta e sconce

sbattute sui tavoli ad uccidere mosche

con l’aiuto dell’anello migliore)

invece vedi:

il taglio, e quindi la sezione.

Quella dell’ago è rotonda

e Santa Vanna va in cerca

del filo giusto

per un’imbastitura prima.

Ha gli occhiali sul naso, il metro

sulla spalla, Mista Sartina

tiene l’attrezzo

fra il pollice e l’indice

a secchi scatti di polso

lo infila e lo riprende

come un discorso.

Il suo ago parlante

riesce a fabbricare orli

e unisce due punti con uno.

(Poi l’Annachiara è tornata

e aveva un coltello insanguinato

-una scuoiatura, un sacrificio sull’aia-

per quanto tremendo, tremendo

noi, prossime, l’abbiamo lavato)



Preghiera affinché Alain mi perdoni.

Lo so, quel prisma. Ti ho detto che era una follia da vecchio hippie, in pratica.
Ti ho detto di mettere i piedi per terra, Alain nel volo del signore, volto buono, vai a giocare a golf col tuo analista. Dura sono stata dura come la pietra, abbasso al misticismo sdrucciolo di quel pensiero debole-dominante.
Il punto era che quel prisma era un regalo. A rifrangere le luce nel suo spettro, molto semplice.
Ce l’avevo con l’Elisabeth, io, nuova convertita, ce l’avevo con l’Helène, io, folle buttata al cielo. Con tutta quell’irrazionalità risorgente che vedevo leggera leggera, lino crespo a fior di moda. Ce l’avevo.
Il punto era che quel prisma era respiro, e contatto, e centramento, e frattura, e stimolo e vento.
Troppo giovane, anch’io, nel mio fissare chiodi. E forse debole tu, mi pareva di rafforzarti con la contraddizione, col voto contro, con le logiche dei cardini.
Alain come la polvere che ruota in acqua in vortice. Alain rapito dal trend. Insettino mutevole.
Ed ero io, io, la polvere e l’insetto, la barchina di carta che finisce nel rigagnolo, temevo, vedi, questo, "sciences pures et de la santé", cose solide intendo, per sfuggire al ruggito dell’incomprensibile. Disegno.

Alain, perdona. Oggi ho preso in mano il tuo regalo prisma, che è nella mia vetrina, davanti. Tra i mille oggetti del comunque mondo dal quale non mi stacco. Avevo una tristezza cattiva addosso, il concetto di utilità, vedi, quello che serve, quello che aiuta, cos’è? E perché questo bisogno, che poi è una cosa interna, quando tutto resta irraggiungibile e discosto, impossibile a dirsi, e la risposta mia semi-paralisi, vado a giocare a golf con il mio analista? Insomma: con il tuo prisma sono usciti tutti i colori, preso raro il sole di fuori.
Perdono Alain, le parole bastarde della giovanetta prima falle suonare diverse, dai.
Fammi sorridere perdio perbuio,
gemello arcobaleno,
ti prego

ti prego.