1) Prima, c’è uno scivolare-
Entrare (si entra ma non è proprio un’entrata, è un esserci, uno stare); quindi stare a perpetrare, portare avanti la storia, l’immagine fissata a scorrere.

Il punto sarebbe: qual è quest’immagine? Ammettiamo sia quella di una foglia caduta nel brillare dei colori autunnali. Foglia caduta, comunque, e foglie cadute in massa alle soglie, poi nel cuore, dell’autunno.

Poi si vorrebbe invece, ecco, piantare il seme di un albero ma si continua a parlarne girando al sé attorno ossessivamente e quasi ciechi ad altro (nel fatto che c’è il seme da piantare) studiando approfonditamente persino l’utilità dell’albero e della sua presenza nel mondo e per la fotosintesi clorofilliana e per l’ombra e per l’ossigeno e per il cibo, per l’acqua drenata e il suo ciclo e per tutto il nido organico che l’albero è.

Se ne parla se ne scrive. Nessuno che lo pianti questo patente seme. Il linguaggio si sparla e si arrotola e si spacca le orecchie. Non sviluppa alcuna tecnica –  Allora è che abbiamo capito che la tecnica non serve, è inutile? Sembrerebbe di si, quindi anche il linguaggio non serve, fatto com’è a sua volta di una tecnica, di una sorta di artigianato dei simboli e dei fonemi: verrebbe da concludere che se tutto è linguaggio ma il linguaggio in sé è niente, tutto è niente.

Così è che si torna a scivolare, ad attorcigliarsi, nessun albero viene piantato-

Viene da pensare, per niente intenzionale e figlio di cattiva coscienza, ad un sofismo diffuso- Quanto questo parlarsi nelle orecchie ed arrotolarsi pedissequamente alle origini del senso, alla ricerca delle basi di una sorta di fede (senza contare il fatto che spesso si sia alla ricerca di una sorta di autoassoluzione, della pratica di una sempre confermata bontà o comprensione che poi della comprensione ha solo la facciata, mostrata) derivi da (sia figlio  di) un’incapacità di assumere la fatica e la complessità di un  vero lavoro di costruzione intellettuale.

Vorrei sentire parlare di  ed applicare tecniche, costruire senzienti apparati portanti. In questo caso linguistici: comunicazione binaria, codifiche, reti neurali, corrispondenze, storia degli incroci. In quanto è pare solo, seppur commisto, e fa nascere nomi, foglie ascellari, fiori, polline, frutti, dal tronco scelto che si cura e , attenzione, si lascia fare.

2) Qui però va fatta distinzione, e potrebbe essere la prima, la più cara: la codifica di un linguaggio non parte necessariamente da una teoria, o da una "grammatica"-  Isoliamo gli elementi significativi da quelli di riordino e di classificazione, Linneo ci perdonerà. Codice non è omologazione ma creazione di legami che parlino, dicano, siano capaci di descrivere.
E’ già risultato riuscire a capire elementi di raccordo utili al racconto della cosa-mondo e/o delle sue parti-
Ci sono sfrenatezze che arrivano a dire molto di più di anni di studio delle aridità. (to be continued)

L’ATTO FINALE

A mettere un punto,
così definire della posizione il
fatto intorno.
Spesso grasso intimo
a sagrada conclusione. E,
decidi, non si fa più
questo
gracidare consunto, non più
corone serenelle inchiodate
al sangue della scena
(o a un più modesto viottolo)
rompiamo il giocattolo!
qualcosa di più fatto, di sicuro
e d’intatto, una visione
finale
che ci tolga da qui, bruttodare,
qui
brutteparole,
qui,
in fila al vento quanto vuole.

E partiamo più in alto!
O non partiamo,
cosa cambia Maria,
non partiamo affatto,
stiamo a ripeterci le storie
guardiamo il sole quando sorge
ripetiamo!
la scena prima, costa poca fatica
la scena prima non vale,
e starla a guardare sublima.

L’atto finale, la soluzione
(affossata, affrettata, corre giù dalle scale
ha in mano una lettera marrone
non più bella ma libera si vorrebbe cantare
e canta meglio di prima
con un pane spezzato sul tavolo
del cuore)

l’atto finale, l’abbaglio
(sotto una pietra lapide fa l’oggi
conti con il giorno
e si sbrega ubriaco in parti
simmetriche, ma per questo
riconosce suo il volto, così
vedilo andare di lato, verme perturbato
vedilo
risorgere!)

Coro:
l’atto finale, la scusa,
il pareggio,
lo sporco, non riesco quindi
tronco, e statua ed
ìnnatura
mi, sacra, sfondo.

Allora si mettono libri dovunque, Roberto Roversi, e non c’è più posto dove il libro può stare, sono le parole dalle sillabe ardenti e quelle magre, a cagne cane, sono le bellissime autostrade che portano a Colon del paese perso e le brutte scombinate, le marce inquinanti, sono l’isole. Sono appena state costruite, le alte velocità, a forare l’amianto ma a disegnarne una, strada, respirare non è mai costato pare tanto. I libri stanno in  catasta e li  impiliamo, e li leggiamo a volte per poi dimenticarli, che tutti i libri si dimenticano, ne salvi tredici, quattordici, basta.

Allora le strade diventano segnano e ci portano sempre da qualche parte, che magari è forse lì. In realtà non c’è niente che serva solo. Tutto scompone e sporca, o era uno tenue, un miracolo, qualche sveglia che apriva la giornata di nebbia, lei accanto, il seguito precisato da un odore di fuoco di legna e lo scorrere del dito lungo l’argine fucilato, era un indaco in deriva e l’umido nelle ossa che la centrale idroelettrica ha scaldato, o il fossile, dove andiamo? In realtà non c’è niente ch’è sempre servo-mano.

Allora si dipinge la casa di giallo, e la tintura all’acqua fa salire il salnitro e le righe della muffa prima, sin che  il caminetto che non tira funga la dispensa e l’aria è più tranquilla. Mille morti e moltiplicati per farne altrettanti, nei vuoi libri molte parti mai unire, ed io li amo. La sganghera, la discesa verso il basso, e l’alto delle lacrimose ossa di discesa, la possibile austerità la benigna nasce e ferma. L’alzano. Dai libri allora, dai libri scelti, dai testimoni, e dalle visioni, rosicchia un battito e da lui viene ma troppo tardi ma troppo presto partono.

Allora si va a dormire senza sonno, che non basta , Roversi Roberto, questo a raccontare quello che i mille tanti morti sognano. Sono che li guardi fare, sono che li sai, ma mai sapere è uguale e si schianta contro la fabbrica e il muro, da dentro a fuori il suo veleno denso e quasi mite, una diossina, un’anidride, e non le ho sparse/sentite ma mi sono riscaldata e ho costruito roba a Breda. Non mi concilio con questi amori, sai, devo tagliare la neve, ti ricordi? Che la poesia ha il freddo che non tiene? Che non lo tiene mai?