ULTIMA DIGRESSIONE DAL TESTO















Cos’è il mondo, Maddalena Salgemma,


una cava, dici, una cava, sei,


sette, Maddalena Salgemma, le intonazioni


della voce preclusa all’innominabile


una cava, chiedi, una cava, vuoi,


Helene Deutsch precisa insufficienza


è certa, lei, che hai un piccolo senza


che niente ti restituirà il dovuto


e che è un pene che ti formerà.


Allora, Maddalena Salgemma, cos’hai dentro


se hai dovuto aspettare questo milite ignoto


per costruirti una sessualità?


Sicura di non averci mai infilato un dito?


Sicura del rito stolido dell’ingenuità?


Che bivacchino su te mille agenti ingordi?


E che solo la tua piccola storia sia retta da altri?


Maddalena, Salgemma, non sono anche tue le parole?


E come le hai decise, che codice, dì come!


Nella muta vagina un limitato groviglio


a partorire mammifera i piccoli di specie


e tu sola non sei, la bambina non vive


a identità negata, aspetta chi l’imprime.



Sono intera


sono piegata


sono sanissima


sono malata


sono fragile


sono severa


sono candida


sono nera.


Ho vita facile


ho impossibile amore


ho un sangue docile


ho eterno dolore


ho madri che odio


le stesse che ho amato


ho vita difficile


ho il primo peccato.


Sono la bambina


sono la rosella


sono la madonnina


sono la tenerella


sono la non-voluta


sono da riscattare


sono l’allontanata


sono la serva del padre.


Ho cinque anni


ho bambole scarabocchiate


ho foglioline raccolte


ho caramelle succhiate


ho camere di buio


ho notti da pensare


ho rabbia pianto digiuno


ho salti dalle scale.


Sono cattiva


mi sono sporcata


sono furiosa


mi sono picchiata


sono buonissima


sono ordinata


sono difficile


sono eccitata.


Ho una bocca


ho braccia e mani


ho una schiena


ho una vagina


ho gambe e piedi


ho pelle e muso


ho ano e natiche


ho occhi e naso




sono una bocca


sono braccia e mani


sono una pancia


sono una vagina


sono lingua e ciglia


sono occhio e occhi


sono ano e orecchi


sono pelle e dita.


Sono pelle e ossa.


E capelli e fica.







































Monica sapeva disegnare come dio, e aveva una competenza precisa delle cose che faceva, non ammetteva supposizioni (salvo poi ricredersi se si rivelavano vere).

Sylvia scriveva poesie piene di uomini, piene di padri, piene di lazzaroni, rivolta verso il suo corpo di spina spiga, forse non erano poesie piene, forse erano vento neve.

Ascoltare De Gregori, ecco cosa ho fatto per molta parte del tempo che ricordo, le sue equazioni magiche come le navi al mare, come il sole all’orizzonte la sera.

Da qualche parte c’è un uomo che non ritorna, la notte gli uomini non tornano, Filumena, e sposarli è lavoro duro, impegnativo, ma il mito della putta buona regge bene.

Sempre chi non ritorna, l’eroe negativo, il pirata, lo zingaro, Velasquez com’è duro questo amore, tu arrivi ogni biennio in questo paesino piovoso, ci hai portato il pepe.

Frida passava di là, ogni mercoledì, a lavare le pentole unte sulla riva spettrale, e amava fare quelle cose lì, spolverare, un castello, ma il re del mondo la invita a teatro.

Charlotte, sometimes, sbuccia l’arancia con perizia, so che è sposata, presa, ma io, molto giovane, molto molto giovane, io giovanissimo penso al di lei amore, mentre.

Nascita e morte sono due momenti che si incontrano, uno dice all’altro "come va?", l’altro risponde malvolentieri che non gli è concesso parlare con i sigilli.

Un matrimonio sono, da un po’ di anni, due che cercano di abituarsi al dolore che si aggira tra i loro evitamenti come se fosse vero. E’ così che iniziano a parlare.

Uno diventa la sua smorfia, sa grimace, nessuno lo ha detto così bene, Ferdinand, la faccia prende in prestito tutte le contratture fatte per tenersi da qualche parte.

Lasciamo stare il collegio, ora sei in ufficio a mettere timbri e a ritrascrivere comunicati, guardi fuori quel poco di sole, entra chi sai e pensi a Don Guido, parli a lui.

Mentre i danesi se ne vanno, hanno posti prenotati sull’aereo, nella tua africa centinaia di persone sono ora, incredule, ferme anche se scappano, nel macello del machete.

La scrittura non entra nella morte delle cose. Ne parla come se fosse vita, la lascia a se stessa, la rivuole indietro, si imbizzarrisce come un toro trafitto sbalordito.

La scrittura non parla della morte delle cose. Ha un movimento di rinascita continuativo, romantico, scandito, segue la malattia come fosse divenire d’anima.

Nietsche, sifilitico, dà movimento ad un occidente squartato dal principio di non contraddizione, lo converte in parabola oscena, punta alle radici del peccato globale.

Ascoltavamo gli Stormy Six in un tripudio di assensi, seduti sulle Panda nere, in un imprecisato ma confortevole e marittimo e luminoso e lucido mattino portoghese.

Monica osservava con attenzione il movimento dei cani, il loro rapporto con il padrone, l’attività indipendente, quando annusano, escono dalla traiettoria, guardano altro.

Gertrude non avrebbe pubblicato niente, o poco, se chi l’amava non avesse inisistito, certa della sua unicità, certa del suo gravissimo cuoreculo innestato alle parole.

Emily, un fantasma della nuova Inghilterra, continua ad aggirarsi tra trifogli ed è certo che è ancora lì, un torrido occhio per cena, a mascherina anti-morte perpetua.

L’arte effimera, le sculture di ghiaccio, i disegni strappati, internet mia cara, tutto gonfia lo spazio che hai preso, sogni sempre una coppa, un trono, un arrivo pieno.

Ma Laura è morta anche se aveva un nome, morta di cellule anomale, cellule nuove, e non si scrive , non si dice, non si pone, l’eterno è subdolo e solo una canzone.

Sono una vecchia madre. Adesso ancora sveglia, ora che nelle pieghe progressive la notte si dispone a strati d’alba e si sentono fuori scricchiòli d’uccelletti in tormentati gazoo mi sono distesa, mal corrispondente, in morbido delirio. Adesso immaginata molte volte sottile l’ansia del luogo non prevedo e non sento, ma si sovrappongono figure per sempre amate in andirivieni frenetico. Seduta davanti alla finestra della sala da pranzo, oramai immobile nella grassa attesa del prossimo round, il mio nipote più buono e che ha occhi solo per me ha solo per me gli occhi ha occhi grandi che parlano soli . Un piatto di minestra. Anca ancò emo magnà. Gea dal furbo sorriso.

( Ricordo la farfalla ch’era entrata
dai vetri schiusi nella sera fumida
su la costa raccolta, dilavata
dal trascorrere iroso delle spume.
Muoveva tutta l’aria del crepuscolo a un fioco
occiduo palpebrare della traccia
che divide acqua e terra; ed il punto atono
del faro che baluginava sulla
roccia del Tino, cerula, tre volte
si dilatò e si spense in un altro oro.
Mia madre stava accanto a me seduta
presso il tavolo ingombro dalle carte
da giuoco alzate a due per volta come
attendamenti nani pei soldati
dei nipoti sbandati già dal sonno.
Si schiodava dall’alto impetuoso
un nembo d’aria diaccia, diluviava
sul nido di Corniglia rugginoso.
Poi fu l’oscurità piena, e dal mare
un rombo basso e assiduo come un lungo
regolato concerto, ed il gonfiare
d’un pallore ondulante oltre la siepe
cimata dei pitòsfori. Nel breve
vano della mia stanza, ove la lampada
tremava dentro una ragnata fucsia,
penetrò la farfalla, al paralume
giunse e le conterie che l’avvolgevano
segnando i muri di riflessi ombrati
eguali come fregi si sconvolsero
e sullo scialbo corse alle pareti
un fascio semovente di fili esili.
Era un insetto orribile dal becco
aguzzo, gli occhi avvolti come d’una
rossastra fotosfera, al dosso il teschio umano;
e attorno dava se una mano
tentava di ghermirlo un acre sibilo
che agghiacciava.
Batté più volte sordo sulla tavola,
sui vetri ribatté chiusi dal vento,
e da sé ritrovò la via dell’aria,
si perse nelle tenebre. Dal porto
di Vernazza le luci erano a tratti
scancellate dal crescere dell’onde
invisibili al fondo della notte.
Poi tornò la farfalla dentro il nicchio
che chiudeva la lampada, discese
sui giornali del tavolo, scrollò
pazza aliando le carte –
e fu per sempre
con le cose che chiudono in un giro
sicuro come il giorno, e la memoria
in sé le cresce, sole vive d’una
vita che disparì sotterra: insieme
coi volti familiari che oggi sperde
non più il sonno ma un’altra noia; accanto
ai muri antichi, ai lidi, alla tartana
che imbarcava
tronchi di pino a riva ad ogni mese,
al segno del torrente, che discende
ancora al mare e la sua via si scava.)

Sono la vecchia madre, nella cosmogonia di Esiodo primaria cosa emersa da caos e ho generato sola Urano e il cielo stellato e le montagne e Ponto, seduta sulla sedia, poco assistita, all’ospedale di Negrar, tra le puerpere starnazzanti, staccato da me non ti sono riuscita a pensare ma premevi tanto e forte chissà che ti credevi. Che avresti scambiato files musicati su kazaalite? Che saresti partito carabiniere per l’Iraq sconquassato? Che ti avrebbero assunto supplente nelle classi di matematica nella scuola dei ripetenti? Che non trovavi la berlina adatta al tuo matrimonio ritardato? Che saresti stato amato dall’ultima delle tue mire? Che saresti partito per l’america per un posto certo da neuroradiologo? Che avresti trovato lavoro in cartiera e mai più altro? Che saresti entrato a piè pari nella vita disastrata della contessina accanita? Che avresti fatto strip umilianti per pagarti l’eroina? Che avresti aspettato dieci minuti dieci prima di parlare davanti a quella donna schifosa? Che avresti perso ogni voce, ogni voce possibile, in incastro stabile di prospettiva?

( E’ pur nostro il disfarsi delle sere.
E per noi è la stria che dal mare
sale al parco e ferisce gli aloè.

Puoi condurmi per mano, se tu fingi
di crederti con me, se ho la follia
di seguirti lontano e ciò che stringi,

ciò che dici, m’appare in tuo potere.

Fosse tua vita quella che mi tiene
sulle soglie – e potrei prestarti un volto,
vaneggiarti figura. Ma non è,

non è così. Il polipo che insinua
tentacoli d’inchiostro tra gli scogli
può servirsi di te. Tu gli appartieni

e non lo sai. Sei lui, ti credi te.)

Mi passano vicino come se non avessi nome, ingombrante ed indesiderabile cosa che sono, ma per te sono stata importante, vero? mio tato? Che inveivi contro il fratellino urlante? Ed ero al centro del tuo mondo umido. Mio. So di non essere buona ma crocevia di spinte contrapponentesi e risultante vettoriale di forze sòliloque, so di non essere buona anche se Madre e Investita, mi viene in mente ora: non saprei dire bene quale fosse il desiderio di sempre. Avere una mia casa con l’uomo e avere dei bambini da lui. Questo potrebbe bastare. Necessità di consenso? I miei bambini ed io stessa abbiamo bisogno di venire riconosciuti dal paese. Ho capito meglio che tu sia morto in Grecia, meno che tuo fratello sia nato cerebropatico. Ed è tutto un uh uh. Ed ha quarant’anni suonati. E lo custodisce e lo cura sua sorella ma io, IO, sono madre di un handicappato. Lo dico ai vicini di casa prima di presentarmi. E’ una croce alla mia maternità gloriosa, al merito, certo, ma io non sono buona, desideravo gloriarmi di figliuomo nella reggia perchè il paese (Affi, quattromila abitanti, con Incaffi e la Cà Orsa i sta tuti ne na borsa) potesse dirmi che brava donna fossi, magari la migliore. Ora sono in carriera direzione santità, pensavo ad altro fasto ma può andare, tutto questo andrà.

(Per un formicolìo d’albe, per pochi
fili su cui s’impigli
il fiocco della vita e s’incollani
in ore e in anni, oggi i delfini a coppie
capriolano coi figli? Oh ch’io non oda
nulla di te, ch’io fugga dal bagliore
dei tuoi cigli. Ben altro è sulla terra.

Sparir non so né riaffacciarmi; tarda
la fucina vermiglia
della notte, la sera si fa lunga,
la preghiera è supplizio e non ancora
tra le rocce che sorgono t’è giunta
la bottiglia dal mare. L’onda, vuota,
si rompe sulla punta, a Finisterre.)

(La frangia dei capelli che ti vela
la fronte puerile, tu distrarla
con la mano non devi. Anch’essa parla
di te, sulla mia strada è tutto il cielo,
la sola luce con le giade ch’ài
accerchiate sul polso, nel tumulto
del sonno la cortina che gl’indulti
tuoi distendono, l’ala onde tu vai,
trasmigratrice Artemide ed illesa,
tra le guerre dei nati-morti; e s’ora
d’aeree lanugini s’infiora
quel fondo, a marezzarlo sei tu, scesa
d’un balzo, e irrequieta la tua fronte
si confonde con l’alba, la nasconde.)

Ecco, figli esausti, la vostra vecchia madre. Gea, Gaia, dal mio figlio maggiore ho generato i Titani, le Titanidi, i Ciclopi dal solo occhio e Crono. E l’ho stuzzicato, Crono-Saturno della melancolia, ad evirare il padre, mio figlio stesso, per fecondarmi ancora che dal suo sangue potente nascessero ninfe e giganti e vendetta (tutti nascosti nel ventre della terra li teneva questi bei figli del cielo). Dal mio figlio minore cinque divinità marine. E dall’inferno, il luogo più interno, un mostro alato con cento teste di serpente e le fiamme negli occhi e Echidna, ho fatto anche lei, l’ho fatta metà donna e metà povero, povero rettile.

 

 


 

I versi citati tra parentesi sono di Eugenio Montale (1931; 1940-42)