Chiara, poi ci siamo sfidati e avresti visto venire giù acqua e cenere, vetro.

Un vetro per ciascuno, pezzetti di vetro e gocce di vin bianco. Sarebbe sparito ogni incanto.

C’è chi si sente furbo perché collude con una svanita gioventù e ci sono io, spallina indecente e traballa, che dico a te

Chiara, assicurati che gli spazi siano liberi.

Non c’è tempo per l’indulgente rifugio delle tessere, né per quello degli angeli, né per quello dei chiassi.

Il nostro brutto modo lo dice, e te la dice lunga: viviamo come porcellini appesi ad un salvadanaio, ad un salvavita, ad un salvamore.

Cincischiamo nei ristoranti e badiamo ai bambini. Beviamo in modo ricorrente. Fumiamo pari. Ci guardi stupita, non capisco che pensi, ma chiarella siamo noi,  e forse è la nostra versione più autentica.

Boccaloni orali ciuccioni, succhiatori giuggiolanti setosi, affabulatori bonbon gingilli, abbòccati.

Siamo fetenti sporcaccioni. Si. Nel senso più morbido: non curiamo troppo né l’igiene né gli odori. Sgangoliamo nei nostri pochi chilometri e non proviamo a meritarci tazze più pulite. Però parliamo di storia, e di mondo, e di dio del profondo. E sappiamo che cosa diciamo.

Perché poi tutto si rompe?

Chiara, precisamente non lo so. So che ci aspettiamo sempre che da quel bel faccino nasca un’anima pura, per esempio, e che da quell’impeto creativo scaturiscano diritture, e che da quel ragionamento stringente si possano forgiare leggi stabili, centri di gravità permanenti, e che dalla bella bambina intelligente cresca un mondo nuovo.

Perché tutto si stracca?

Dei sistemi complessi. Dell’intersezione di sottocaos. Della cattiva coscienza. Dell’adultità illusa. Della giovane troppo grassa speranza. Della civiltà del mondo dove si mangia. Dei massimi sistemi e del loro minore. Dell’intersezione. Della fragilità. Dell’identità imprecisa. Della poca forza e della libertà, della rinuncia al dio, al re, della morale incollocabile.

Perché non è scritta da nessuna parte. Perché è ambivalente e scomoda, questa morale postuma, grigioverde e scroccona, perché è vergine e desidera un guastatore, perché è subdola

ed è bella come un fiore bianco profondo dalle decine di foglie lanceolate, altro che rosa, è difficile, scontrosa, umilissima, odiosa

è contestabile, e fascinorosa

è peccosa per quanto rifiuti le scritture, le tocca tenersele, è pensosa, sta per ore sulle piante, a far qualcosa

tipo starsene, friante, a parlare con i cani, come fai tu

Chiara, scintilla morosa amorosa.

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Non è passato giorno, bambina mia, in cui non ti abbia pensata, in cui non abbia chiuso

gli occhi su una serata estiva senza il ricordo dolce di te e anche se intorno al tuo nome

si raccoglieva un così grande dolore, e c’era ben altro che pace tra noi due, eppure io

continuavo a ricordare, poi di lì a poco era giorno. Non mi manchi Susie – è ovvio che

non mi manchi – semplicemente me ne sto seduta davanti alla finestra a fissare il vuoto

e so che non c’è più nulla – Sentire no, non sento – più di quanto senta una pietra,

che è freddissima, o un ceppo, che è silenzio, là dove una volta era calore e verde e dove

gli uccelli ballavano tra i rami

(Emily Dickinson, in una lettera a Susan Gilbert)

 

 

Si accapigliavano. Connesse incognite sapor di miele di fico, strettamente interessate. Lo riproducevano a balzi il suono vitale di un abbondante fremente, quasi schive e, misere.

L’ombra lunga dei capelli sciolti e l’indifeso apparire. Sicuramente avvinte e spodestate turbinavano.

Ombra lunga, trasportata di maggio in quel giardino, ricordi? Ricordi a farsi pezzi di carne e nuove giunture, dove mi ero persa precisamente a rincorrere cosa a domandare che a sfilarmi gli anelli uno per uno (la prima chiedeva) dei piedi freddi e del supermercato, l’isolotto della realtà che improvvisamente si schiude alle prese con la cosa del vitalismo.

"Non freno nessuna rimembranza e produco continuamente un’energia di discorso che appare frammentata ma si tiene alla radice, come il papavero, un boccio che polpa sugli steletti e lunghe foglie seghettate -Rinaldo vieni a vedere- o come la ginestra sopra il muretto rotto, che sfronda e si divide duramente, o come -ti ricordi della zia?- qualcuno che prova a spiegarti quando ha sentito, aveva sette anni, per la prima volta

il rantolo della morte. Che i medici non li conosce quasi più perché è cresciuto in tempi poco ospedali e senza ossigeno, tempi a vicinanza stretta a dormire tutti nello stesso letto e a conoscere i liquidi per colore e odore e vischiosità, fluido il mistero del mondo corpo. Il suono dell’interruzione di respiro deve essere ben piantato, profondo, proveniva dal basso, mi vieni a suggerire

Rinaldo"

Ma perché litigavano? Legate com’erano, si è saputo, che sapevano dolce, piuttosto coinvolte nel ripetere il gridare il dilatare delle bocche i muscoli guizzanti, persa la faccia in un povero pomeriggio.

L’ombra lunga dei capelli sciolti e l’indifeso apparire. Sicuramente avvinte e spodestate turbinavano.

"Perché litigate?"

Esce la rabbia come un flutto irresistibile, copre la terra, la faccia, le ombre, e si deposita come una marea a trasformare il fondale scombinato nei suoi crestati dettagli. Esce la rabbia come l’acqua grossa di un impianto a pressione mal regolata, di solito viene aprendo quei rubinetti a goccioloni trilobati. Annega le formiche e le farfalline sventate sul lavandino calcinato, spazza un mondo microbo e lo divide per settecentoventuno virgola sessantaquattro periodico. Un cataclisma, la tempesta, la fine di quel poco tutto. Pocouncazzo (ad Alice regaleremo un bel ditale).

"Perché litigate?"

Esce una rabbia come il vento di ieri sera che piegava ogni posto fusto, lanciando a zaffi tutte le foglie contro la veranda e diventa grosso e sibila, fa tremare i vetri e passa dalle canalette, toglie le cose leggere dai luoghi comuni, strascina le arelle le lattine le carte le bucce le pigne gli stecchetti dei gelati spezza rametti gonfia per bene i tendoni e stacca i ganci. Esce la rabbia potente come un pugno precipitato fisso a spaccare le ossa, a spolpare il muscolo, a far uscire sangue nei connettivi, a sorprendere l’intestino tenue (è tenue, tenue l’intestino) e a chiudere un cerchio riflesso di rapporti a interscambio esaltato, quello che ti faccio è quello che sono, attiva questa volta, tu-io il mio bersaglio.

E la vergogna è un crepitìo di passato, via la tempesta solo due macerie, un incanto spappolato, la nuova realtà .

C’è una camera segreta, chiusa da una porta blindata. Questa contiene, oltre a qualche povero cane incatenato, qualche mostro tra i quali il più commovente è quello che sta proprio al centro della stanza, che è il nostro intimo rimprovero. Chiuso in un enorme vaso di cristallo che ha all’incirca la forma del suo corpo, è color malva e di una sostanza molle, quasi gelatinosa. Assomiglierebbe a un grosso pesce, se non fosse per la tristezza molto umana della sua testa. Il domatore che sorveglia i mostri lo disprezza sopra tutti, lui che, noi lo sappiamo, troverebbe un po’ di pace nell’incontro con uno dei suoi pari. Ma non ce ne sono di simili. Gli altri mostri differiscono da lui per un leggero dettaglio. E’ solo e nonostante questo ci ama. Aspetta senza speranza, da noi, uno sguardo amico, che non gli accorderemo mai. Querelle viveva tutti i suoi istanti in questa desolante compagnia.

Genet, pagina 57.

Coraggio del poeta (prima stesura, trad. Enzo Mandruzzato)

 

 

Non son simili a te tutti i viventi?

La Parca non ti nutre per servirli?

E dunque va’, cammina disarmato

attraverso la vita, senza pena.

 

Sia benedetto tutto che ti accade.

E sii pronto alla gioia. Che potrà

darti dolore, cuore? Ostacolarti

lungo la via per cui tu devi andare?

 

Simili al nuotatore che costeggia

tranquillo o varca l’onda che lontano

suona argentea o il silenzio degli abissi,

noi poeti del popolo migriamo

 

volentieri, gioiosi e amici a tutti,

dove è il respiro e l’onda della vita.

Ci fidiamo di ognuno. In altro modo

canteremmo ad ognuno il proprio Dio?

 

E se l’onda sommerge nel gorgo che lusinga

uno dei forti dove più fidava

ed infine la voce del poeta

sotto la volta azzurra si fa muta,

 

gioioso muore, e boschi solitari

lamentano il più caro degli amici

e il canto della vergine amoroso

si ode più spesso giungere dai rami.

 

E se alla sera viene uno dei nostri

dove il fratello cadde, molte cose

sul luogo ammonitore va pensando

in silenzio, e ritorna più difeso.

 

 

 

 

 

 

Coraggio del poeta (seconda stesura, trad. Enzo Mandruzzato)

 

 

 

Non son simili a te tutti i viventi?

La Parca non ti nutre per servirli?

E dunque va’, cammina disarmato

attraverso la vita, non temere.

 

 

Sia benedetto tutto che ti accade.

E sii pronto alla gioia. Che potrà

darti dolore, cuore? Ostacolarti

lungo la via per cui tu devi andare?

 

Da quando il canto respiro di pace

si svincolò dalle labbra mortali

e la nostra saggezza allietò i cuori

giovando nella gioia e nel dolore,

 

noi poeti del popolo andammo, amici a ognuno,

gioiosi tra i viventi dove è molta

la compagnia umana, a ognuno aperti,

come l’antico Padre, il Dio del sole

 

che il giorno lieto dona ai ricchi e ai poveri

e noi che trapassiamo nella fuga

del tempo regge e guida

come fanciulli con le cinghie d’oro.

 

Il suo mare di porpora l’attende

e lo riceve quando l’ora è giunta.

Scende la luce nobile il sentiero

con mente eguale, esperta del trapasso.

 

Così perisca, quando sia il suo tempo

e lo spirito serbi il suo diritto,

muoia così, in un severo vivere,

la nostra gioia la sua bella morte.

 

 

Friedrich Holderlin, Liriche del ritorno pp. 476-483, da Le liriche, Adelphi ed., 1977.

(sua prima stesura intorno al 1800, seconda primavera 1801)

 

 

Antichità del vivere (tra. Enzo Mandruzzato)


Città dell’Eufrate

strette vie di Palmira

foreste di colonne nel deserto,

che è di voi?

Poiché valicaste

i confini del respiro umano

vapori e fuoco degli Dei

vi rapirono le corone.

E ora io sono sotto queste nubi

(ognuna ha la sua pace)

sotto regolate querce

sulla landa ove balza il capriolo

e gli Spiriti beati

stranieri mi appaiono, e morti.

 

Hardt, scorcio  (trad. Enzo Mandruzzato)


La foresta precipita,

foglie pendule involte

simili a boccioli,

più in basso in fondo il fiore

ha ben voce in capitolo

giacché vi camminò

Ulrich. Accade più volte

che un grande destino

maturi il pensiero

mentre è in cammino

in un luogo superfluo.

 

A metà del vivere (trad. Enzo Mandruzzato)


Carica di pere gialle

colma di selvagge rose

la terra pende sul lago

e i cigni miti

ebbri di baci affondano il capo

nella sacra acqua digiuna.

Ahi me, dove

quando verrà l’inverno

coglierò i miei fiori,

dove luce di sole

e ombre della terra?

Muraglie stanno

fredde e mute, stridono

i segnavento.


Friedrich Holderlin, Inni e frammenti  pp. 564-569, da Le liriche, Adelphi ed., 1977.

(tre dei "canti della notte", dalle parti del 1802)

 

 


 


 


LETTERA DI NASCITA

Buongiorno Sanbellino, di qualche novità, e quasi di tutte, finisci per stancarti. Ma sappi che io qui davanti alla macchina, al presepio del 4 maggio, penso a figli belli di zecca e che crescano o no. Quindi, Anna, so poco dei tuoi genitori, e se vuoi che ti dica tutto un po’ mi fan paura, ma non mi fai paura tu, meraviglia e sparpagliata, buttata al mondo, battezzata.

C’è un grilletto che gira per casa e non vorrei mai fossi tu, quando più grande, il suo pinocchio. Mi piacerebbe vederti allungata sul muretto del mare che fumi pensosamente provando ad individuare betelgeuse nell’orione o infilare fogli a raffica nelle macchine da scrivere che non avrai, ti vedo in fondo come le cose che ho amato, perché mai poi non amarti così?

Qualcuno ti amerà come deve come cosa sua, avrà notti più caustiche con te, e molto più avvolgenti, molto presenti e impresentabili pure, qualcuno ti importerà come non mai per poi non importanti proprio più, farà sangue e latte e pomeriggi davanti a Heidi col panino ed il succo di pera, e farà i tuoi ricordi bianchi e beige, e strinati.

Qualcuno ti darà da fare e da piangere, da ridere. Nella confusione della festa dello sport di Grigolo, vicino al banco della birra, capelli bruni ricci appena accomodati nel nastrino, gli occhi per quel cugino incandescente specialmente inseguiti e figlia figlia, figlia sei bella come il sole, non ti accorgi di niente, tutto è nuovo qui, la prima siepe, la prima lacca, il primo cordoncino, il primo invito (credi), la prima luce riflessa dalle prime labbra viste così, al primo chiaro, alla prima ciucca, al primo frullare della batteria canaglia, nella prima vera.

Infatti io, Sanbellino A., ho una fotografia a colori di cui non mi stancherò. Sei tu che a sette anni guardi contro sole e fai una smorfia molto caratterizzante, e non guardi in macchina (è la seconda) ma da una parte che non abbiamo ancora ben individuato. Tutti si sono dati molto da fare per farti entrare in quella foto ed è un bene, così ce l’ho, la guardo quando voglio capire qualcosa di astronomia. Mi dicono che si studia, Urania, ma varrà ben partire dalle stelle, o dico una fesseria?

Che io, Annellina, infilato nel dizionario etimologico CortellazzoZolli alla pagina 1273 di "stiacciàto", ho un tuo disegno a pennarello dal titolo MAPPA SEGRETA dove un bel rosso centrale a squame viene su verso un solino incrociato a grassi segni verdiblu, e per terra il castagno, viola gli altri buchi e poi mi ci fai partire su delle scale sottili a tratti neri, una tua scrittura qualunque, che manco klee.

E io, Annette, penso per te alla posizione del gatto in un pomeriggio trascorso in erba bassa, poche auto che passano per quel po’ di noia che ricama il paese discosto, e una gita in montagna (che le montagne si vedono solo in gita) con un gonnellone nero che ti arrivi ai piedi, conoscere le bruschette fatte sulla graticola, l’olio d’oliva, la saliva degli altri, il sonno.

Diventare diventerai. Che verranno indette gare per farti assomigliare a qualcosa. Ma è il punto del tuo nascere, il punto qui è il tuo nascere, nascere appunto, benedetta, nella casa del cane e nella casa del sale, nella casa del cristo e nella casa del diavolo e nel fienile e nel catrame, quello che il giorno spinge fuori verso te che stai, ma quanto ti muovi! Cattiva! Attiva! Attivati Annina, bella come il sole, come la terra, come la rabbia, come il pane…

Diventare, ti diventeranno. La preziosa laurea, il santo lavoro, i soldi per comprarti l’elettricità, ma prima ancora un concerto dei Baustelle. O per sentire Romolo Rossi parlarti di metodologia dell’amore. O per un libro di Mallarmè. Nella stanzetta affittata a Milano-Dergano proverai a farti assumere dall’architetta che collabora con la Driade disegnandole quasi agratis le cucine. Diventare c’è tempo.

Intanto prenditi a cuore questo nascere. Fa come se tutto fosse lì. Fai: decidi di non alzarti, stai allungata con il sedere e la schiena e le braccia allargate e le gambe tese e la nuca ben piantata al suolo, respira, apri la bocca, apri gli occhi, stai nel tempo protetto, accordati con il contatto e segui quella sottile, smarginata, verde, ariosa, fragrante pro-testa. Puoi esistere, comunque e per quanto tutto, improvvisamente o in modo più subdolo, non sia.