Il canto d’amore di J. Alfred Prufrock di T. Stearns Eliot.


 





Noi via


all’imbrunita sopra blu


anestesia di coricato,


vieni sui vicoli vuoti


in sottovoci di ospizi


di bianche ore ospiti squattrinati


in di resti e trucioli ricche bettole;


vie a ripetersi come noia dialettica


subdole, intente


a portarti quesiti pesi…


Senti, non dire quali,


solo vieni a vedere.



Cincischiano le signore al piano,


hanno opinioni sullo scultore italiano.



Una bruma di stoppa addossata alla finestra


un fiato di zolfo striscia-testina alla finestra


leccarono i cantoni delle otto


tentennarono sui canali di scarico


presero su sé fiocchi caliginosi discendenti


glissarono il balcone, un salto secco


e data tenera bruna vendemmia


si attorcigliarono domestici e muti.



Certo verrà l’ora


del fiato sulfureo sciatore per vicoli


addossato alla finestra;


verrà l’ora, verrà ora


per la costruzione del ghigno per i ghigni di altri;


verrà l’ora di ammazzare e dare vita,


e l’ora di ogni fatto e il momento del gesto


(lui alza e ti getta la questione nella broda);


l’ora tua, mia,


l’ora incerta,


per le molte viste e riviste,


e poi il caffè col biscotto.



Cincischiano le signore al piano,


hanno opinioni sullo scultore italiano.



Certo che verrà l’ora


per domandarsi “permesso? È permesso?”


l’ora di voltarsi e andare giù,


stempiati.


E tutti a farti notare che cadono.


Abbigliata a giorno, la camicia inamidata,


un foulard in filo di scozia, per gancio un particolare bijou,


e tutti a dirla dimagrita.


Mi sarà permesso


rompere tutto?


Quel momento ha l’ora


dove si scelgono e rettificano le cose cangianti.



Che so tutto, già tutto:


so delle venti, delle sei e delle sedici


che scavavo il tempo con piccole cucchiaie;


so i toni appassiti in mortifera progressione


che melodie dell’altro capo macerano.


Cosa perdo?


So di ogni sguardo, di ciascuno


sguardo bloccato a chiedere cose solite


che solitamente mi collezionano sul libro


ed io fissata sul libro che provo a muovermi


da dove iniziare


a gettar via le cicche della mia sbobba quotidiana ?


Come faccio?


E so delle mani, di ognuna


mano inanellata diafana oscena


e sotto un’altra luce reticolato di vene.


Sarà quel sentore sensuale


a farmi perdere il segno?


Mani mosse sul piano, mani inguantate.


Mi sono persa qualcosa?


Che fare?



Cincischiano le signore al piano,


hanno opinioni sullo scultore italiano.



Ammetterò di aver percorso l’imbrunire nei vicoli


e visto le sigarette scomparire


con signori soli che guardano dal davanzale?



Io potevo avere unghie affilate


a graffiare fondali sotto acque immobili.



Cincischiano le signore al piano,


hanno opinioni sullo scultore italiano.



E le quattro, alle otto, sono incanti sonnolenti


stirati tra i medi


dormono, fanés, molières,


distesi con noi sul parquet.


Come, davanti alla pasticceria fine,


potenziare la rottura?


Che lacrimai affamata e lacrimai pia,


che pòrti la testa sfoltita


adagiata sul piatto


non significa ch’io predichi, non conta;


sussulta il quarto d’ora di grandeur


ed il servo divino ha la mia giacca e se la ride


insomma, da brivido.



Ma, e perché no, adesso,


all’indomani delle merende


e dei discorsi di ceramica


noi due, perché non


parlare rilassati,


zippare il mondo a gnocco


rollarlo sugli asfissianti perché già citati,


asserire ” Resuscito, ero di là,


adesso vi spiego, vi spiego.”


Metti che lo fa accomodare come si deve


e gli dice ” non sono mie queste parole.


Dissento.”


Ma perché no, adesso,


non si poteva


fatti fine e campo e via bagnata


fatti i libri, le terrine, i vestiti da sera,


questo ed altro, ed altro?


Non ho parole per rendere l’idea.


Fammi i raggi alle reti neurali:


vedi che si


se lui sedutosi bene o senza giacca


e dalla parte del vetro aggiungesse:


” Io non ho detto questo.


Dissento. “



Cincischiano le signore al piano,


hanno opinioni sullo scultore italiano.



Toglimi i panni dell’eroe pazzo, mica sono io;


io sono leggerina, quella


buona per la piazza, buona per la claque,


la menestrella; il flauto dolce


simpatico e gentile


temperato e preciso;


saggio e tonto un poco;


ecco, un Rigoletto.


Il de sire clown.



Vecia, son vecia.


Me metarò el grembial.



Farò un bel chignon? Addenterò ancora mele acerbe?


Metterò una cotonina a fiori e farò il lungolago.


Ariel vociava lì ai suoi fratelli d’oro.



Un tintinnare privato.



Loro lontano sopra il lago mosso


lisciano al lago le ciocche d’argento


sbattute grosse equoree vele-zebre.



Abbiamo passato troppo tempo in cabina


coi pescatori bruni scappellati, a colori,


poi qualcuno ci ha svegliate, e affoghiamo.


 




(riscrittura della poeta)




















Com’è che procedo gobba, tenendomi il fianco destro con la mano?


Più di una volta mi sono chiesta, ora che è un poco che lo faccio, se davvero avessi voluto scrivere qualcosa. Perchè non credo, ecco, che proprio volessi scrivere qualcosa. Scrivere va da sè, casomai. Probabilmente mi sarebbe piaciuto cantare.


Cantare significa: prendere l’aria racchiusa dentro e farla uscire modulandola in pensieri emotivi eterodeterminati, che dipendono dal testo già noto (preconscio) e dal testo non noto (inconscio) e dal testo noto ( “adesso canto una canzone d’amore”). Per esempio. Cantare significa accordarsi su una nota che non si sa chiamare, e svolgere inconsapevolmente un tessuto melodico che è dentro l’orecchio, dove potrà mai essere se non so chiamare né decidere quale nome dare a cosa uscirà da me? Il testo scritto, la codifica, il testo letto per decifrare gli altrui cruciverba sono sanscrito per i musicisti d’orecchio.


Nel canto ci avrei messo: questa incandescente paura. Una paura pura, un terrore visionario che attorciglia di sè ogni percorso e mi rende le sedie paurose, gli aerei paurosi, paurosi i ponti. Una paura viva, gentile, che mi salva da un sacco di morti temute, premature, catastrofiche. Si sarebbe girata, medusa multiteste e cerbero alla catena, e mi avrebbe soggiunto ” vero che mi ami, non più giovane inclusa, vero che non puoi fare senza me che bruciante ti guardo resa paralisi, in fascino? vero che sono l’attesa più caratterizzata con cui sai esistere?”


Ma nel canto ci avrei messo qualche efficace incantesimo. Non ne conosco molti, a me sembra, ma quei pochi sarebbero tutti usciti, quelli che so dire. L’esorcismo dell’anticipazione: so già che sarà per cui ne elenco da subito tutte le conseguenze. Cadremo in mare, cadremo in bocca, ci arresteranno, mi lascerà. E la pratica del sacrificio rituale, capelli tagliati e lobi forati e seppelliture di oggetti talismani , affondamanto di statuine nei laghi, lacerazioni volute e morsi e la testa sbattuta sulle pareti, l’occipite. E l’atto magico, il fare accadere le cose senza che nessuna logica le regga. Al tre, al due, domani lo faccio, orione corrisponde alla quart’ultima casa, decifrazioni barocche di numeri usciti dalle carte, le parole della poesia brumosa corrispondono al dire di lui.


E nel canto ci avrei messo il dolore dell’abbandono, la partenza che continuamente sogno e mi truffa il sorriso fiducioso, un pianto esanime ininterrotto superiore, un signor pianto che modula più scale, la più piccina l’urlo rauco, poi il lamentevole gridato, poi il singhiozzo alternato, poi il pianto d’occhi, alto, poi quello sommesso, costretto, disincantato, poi il pianto dentro che conoscono solo i cani . Il dolore del morto inventato, il morto interno, chi era per sempre che se ne sarebbe andato.


Nel canto ci avrei messo il candore del sonno. Ed un risveglio amato diventato rimando. E il furore della notte diventata ritorno.


Ci avrei messo, in quel canto, l’amore del vento, lo scompigliarsi delle cose, delle fronde, dell’acqua come piacere-movimento, precipitarsi nel percorso di una forza altra con buone gambe, e sentirle intere, intatte, vere, farsi portare altrove senza perdersi mai, inventare. Inventare deve derivare dal vento, da quel momento di danza fendente, scoccato che ti sbilancia senza perderti.