Nel sogno la ragazza arriva in una stanza e si sistema lungo una distesa di letti singoli più un matrimoniale. Le viene suggerito di spostarsi. Accanto a lei ci sarà il compagno di specialità, uno forzuto bruno effeminato.

Poi accadrà la cosa del coito notturno, veduto, di due di cui la donna, si sa, andrà in coma ad un’ora imprecisata del mattino. Penso "non mi dovrò quindi svegliare nel pomeriggio, meglio non dormire" (se la ragazza si svegliasse nel pomeriggio dovrebbe occuparsi della presunta morte della donna del coito)

quindi molto presto di mattina se ne scappa. Qui però si trova a correre in cerchio con la vietnamita (un’amica sua in una lontana adolescenza, vietnamita) Hoa, Nguyen Thi Than Hoa per la precisione, ed è lei la donna della notte; entrambe perdono sangue.

Hoa da un foruncolo spezzato che ha sul viso, io ce l’ho dappertutto perché sono stata tagliata. Il giro in tondo termina con l’uscita della ragazza nel settore garage, sotto il palazzo. Cerca l’auto parcheggiata in posizione comoda, troppo comoda per non essere vista. Così procede minuettando tra il fuori e il dentro, poi si risolverà a passare dai giardini.

I giardini sono dentro il recinto delle case, ma hanno un loro lato aperto e una loro ombra affascinante, bisogna scavalcare muri mediamente alti per entrare e per uscire. Perché anche da lì se ne andrà, ormai tutto è stato scoperto, l’autoambulanza è passata e ha caricato la donna in coma, attorniata dai parenti piangenti.

Lei aveva detto: "la mia parte nel film. Devo essere puntuale per la parte". Così si era scusata quando era partita la mattina. Ma ormai è lì, viene vista, quando l’autoambulanza se ne è andata, e le viene chiesto di partecipare alla pulizia del posto il giorno dopo. Accetta, le tocca.

Il giorno dopo ci sono fazzoletti di carta nel garage e sulle scale, imbrattati di sangue. Lei sa che troveranno che c’è del sangue suo e la scopriranno. Li raccoglie, pulisce, consegna. Pensa : "il sangue non è mio! Il sangue è della morta, dell’altra, quindi nessuno potrà risalire a me"

Hai una forza che non so come riprodurre. Credo dipenda dal tipo di visione, dal punto di vista o da una sorta di microscopio allucinato attaccato alla tua parte vedente.

Non so bene dove tu ti metta, ma fai partire linee. Strane, strabiche, puntinate, non so, sono linee che fanno traslare ma non danno mai la sensazione che si parli d’altro. Così facciamo viaggi speciali, partiamo da un punto e ce ne procuriamo uno diverso e nulla sembra essere cambiato.

La cosa, infatti, è sempre lì che ci guarda. Ha cambiato le scarpe, si è messa ad accarezzare due gatti, ha incrociato le braccia, accende il gas per fare un caffè. Dopo il mezzogiorno di amore scende furente dalle scale, ha aperto la porta del cinema, sbatte la cartella davanti al naso del tipografo, si è cambiata il numero di telefono con una telefonata come di lampo. E ancora.

Ma è sempre lì che ci guarda. Partita per la guerra o per qualunque ricorso dal giudice di pace, sentenziante tiritere con gli amici al bar o sotto processo dalla parrucchiera, o nel supermercato che la spanna, è sempre li che ci guarda.

Ha visto cadere foglie bilobate dal ginko. Ha aspettato tre minuti per bere l’aspirina. Ha raccolto tutta la polvere del tuo appartamento percosso e fa come giochi di prestigio di bambagia. Ha steso la lunga gamba nera di traverso nel corridoio, ti ha offerto l’ultimo sorso di birra che le restava. L’hai vista in bagno sciacquare il viso sudato e muovere le mani come a togliersi una ragnatela.

Cosa ti ha mosso il volere di vederla spostata?

Io credo tu abbia al centro un organo che sparge. Accumula e distribuisce pezzetti consoni, non troppo disintegrati. Mette una sua luce nel momento che asporta, lo fa entrare in una storia perplessa senza mai mancare la mira. Espone, scatafascia ma non rompe, il pezzo si infila gentilmente nella tua operazione e dice che va bene esser smembrati quando il membro poteva dissociarsi e ricomporre. Io credo tu abbia un potere anche magico di sezionare dove non si credeva questo potesse essere fatto, un muscolo ctonio quasi senziente, un incidente maestro che punta il coltellino (ma forse è un dito) dove una sorta di incrocio del pensiero forma nuclei separabili. O ricongiungibili. Io credo tu sappia dove si trovino tutti i segreti di Goethe.

Lui si occupa di riportare a galla e tu affondi. Lui mette alla luce e tu oscuri. Lui mette lo scuro in vista e tu la luce in nero. Ah! Che negredo! Tu non sai cosa fai, eh, non lo sai. Ti viene molto morbida questa lingua che imprime le immagini sui vari supporti messi a disposizione, ti viene facile e si dice che il facile non conti. Tutti fare riferimento a questo codice qui, dicono che così ci capiamo. E se ogni settore ha la sua lingua elfica tu, che ne hai una proprio così, non conti. Poi hanno anche ragione, che tu non conterai. Vai, vai.

Vai sulle linee del tuo cantar perduto, della tua conta spasima di echi, della bella scordata sotto le acque ruvide, del cielo e il suo bicchiere per la valle scostata e la bambina sudata petaletti sulle dita, vai col mondo autoctono a spargere spergiuri e morbidi e secchi assetti di immaginette, vai con dio nei gesti strani dell’incontrare perso vaghi scorci di fiamma penetrativa e di umore consenziente, e di scazzo spirituale e pudore primitivo e sinistra malinconia e pietoso invito e grandine imponente e poco dolore spiccio e portentoso animo e sottile provocazione e spento motivo e solenne imitazione e principiante crasi ed infinito conforto e sporco privilegio e bell’amore. E sporc’amore. E odio pulito.

Vedi che in me

nascono Semi di Maldicenze.

Come sei stato? Blu?

Verde viola-blu?

Quali mani avrà teso il tuo sguardo

a come si sarà comportata,

la Svelta. Sarà

che immagino tutto da lontano

sarà la fine paranoia dell’esilio.

Lontana da per autodecreto

mi meraviglio

e il mondo fa la paura

e la sera agogna

e le stelle sibilano

ed Eliot rimbalza

e domani è giorno secco come eterno

e quanti beni ti vorrò, tu

che dormi di sotto lì

mio stendardo mia spenta

effige

e mia dolcissima mamma

prenderò a carponi il latte tuo

se viene, e la tua stella

mi cadrà sulla spalla

sperimentale-

(Non riesco stare al mondo-

Mondo mi male.

Vi pianto tutta l’acqua di petto

se piango ma

non piango ma è fermo

quel bellissimo figlio ragazzo

che mi sono partorita fatta me

mentre il mattino stralunava,

con la bottiglia aperta)

Si mi ricordo, quella neve per sempre, le anticamere come camere bagnate

e mi ricordo, luce alle merende e Angela con il sole che sfila dalle scale.

Era un tempo minore, così pensavo io, ma mi passava con delizie di balconi

stretti in isole serre, varchi bastoni e canne, quelle torrette, piante tropicali!

Qua, al Québec! Tutte le meraviglie delle tue spezie, o una tapioca,

uno zenzero qua!, nel grande freddo sottopolare! Qua! Il caldo del legno,

qua, l’acqua corriva a maglie rotte, in pace amore e sale…

Che mi ricordo, stanavano la storia come coi cani nelle Grandi Sale

e si trattava di andare alla memoria delle cose mai dette, mai pensate

come fosse possibile ricordare altro, come ci fosse qualcosa da trovare.

Come ci fosse qualcosa da trovare!

L’incantante esperimento, lo svolgersi del filato sui cuscini, un

ricamo ardito, un coso buffo, un lento

sgelare le piantine, danzarle, un corpo

eterno danza per me, suona il violino…

Il comitato dei marxisti-leninisti fuori dalla metropolitana

e diecimila numeri di strada fino alla vecchia casa dei pompieri.

Tutto quel nuovo, ruspa trita centr’anima

(vicino al tuo vecchio cuore mai stato)

s’inventava

kebab motore. Epicerie.  E quella neve per sempre

pare che scongelava, niente

paura, dal fango entrava maggio e si era detto tutto

e ci bastava. A percorrere le malattie di mezzanotte

facendo finta fosse un problema d’igiene, d’igiene!

e ruoli nuovi, divorzi gentili, porte dipinte,

teatri nei casini e cinema nei cessi, velodromi

e giardini, idee pensili, le mille lingue fuse, le mille lingue fuse

in che?

Ma ti ricordi che bastava.

Tutto a produrre un quasitondo. Filandava

dritto quel movimento a mondivivo

la domanda rimaneva senza la risposta

l’ingenuità si spandeva si spostava

che a riassorbirla intera era il respiro.

 

 

Sono nata a Manila. C’erano i manifesti del papa sulla strada grande. Io mi infittivo con le buste di plastica biancorosse sul bel mar cinese meridionale. E’ stata una nascita esplosa contro il giallo del grigio del cielo caldo ed è stata una macchina nuova che consumava aria ed è stata promessa di quiete per la mia cara famiglia ed è stato tutto un cercare di farmi le calze e le scarpe (mal riuscito, da subito).

Sono andata da mia cugina in un’isola turistica, italiani. La aiutavo a cucinare e mi guardavo i cartoni animati. Rifacevo le camere e mi provavo i rossetti delle clienti. A San Valentino, imboccolata, andavo nel Gran Centro a vedere il mercato, le scimmiette, gli spetardamenti e l’estate che si esprimeva. Lungo il pelo dell’acqua, sulle barche a bilanciere, il plancton verdeggiava sotto la luna piena, un amore, un amore, e lo squalo balena che fa solo paura, la mia camicetta migliore.

Orione. Il mio uomo dall’arco e cento frecce e la cintura, tutte le stelle del sud spianate per la mia felicità, la pelle che luccica come l’ambra scura ed il mio nero timore diventare forza, due maialini sotto la palafitta e tutto quello che so. Il mondo è fermo. L’estate è ferma. Le piogge sono ferme.

Io muovo. Queste onde impareggiabili fino all’isoletta degli ossi del giapponese, il dio mago che s’incrista, le regole della casa, il geco che cade, l’elettricità del generatore. Muovo queste barche, ancora, e le giornate dei cacciatori di nidi di rondini, le rondini, le meduse e qualche palma sbilenca. Muovo il gatto e il cobra e, se passa da qui, anche quel poco di buono di mio marito e la sua bottiglia di Tanduay.

Sono nata a Valeggio. Mantova vicina mi suggeriva nomi pre-inseriti. Vada che comunque avevo sei anni quando la mamma incidentò uno. Lei peria. La  mamma comunque non arrivava mai giusta agli appuntamenti, al corso di karate manco morire che potessi esserci, giusta.

Ma brillavo di sole. La mamma alcolista me le lasciava le tracce per una possibile guida, che vada incontro ai sorrisi come dice. Conte?

Cammina lungo il muro. Appoggia la mano al parapetto. Guarda la dorsale. Pensa ad un problema. Ha i denti accostati. Sposta con un piede le foglie. Segue la linea. Crede di poter arrivare. Raggiunge un semaforo. Attraversa la strada. Scosta ventiquattro persone. Spinge la sbarra. Prende il portafoglio. Si accoda tra i nastri. Attende il suo turno. Avanza a piccoli passi. Si mette allo sportello. Chiede un’andata. Apre il portafoglio. Estrae degli euro. Porge degli euro. Prende il biglietto.

Sulla banchina del binario sette si accende una sigaretta mentre con lo sguardo cerca una seduta libera. Davanti a lui una famiglia nella quale non sono chiaramente distinguibili i legami di parentela si scambia parole ad alta voce e gesti che potrebbero far pensare ad un commiato. Il treno è in ritardo di dieci minuti circa, lo avvisa ora il tabellone elettronico, e lo Scultore disegna nella sua mente una cosa così:

un blocco di plastilina piuttosto grande, cinquanta per cinquanta per cento, che verrebbe stondato modellando e togliendo e dal quale farebbe emergere tre nuclei ovoidali congiunti tra loro da una sorta di istmo ben più piccolo del loro diametro seguendo un asse verticale leggermente inclinato, a spirale. Il nucleo inferiore più grande, quello superiore di dimensioni intermedie tra questo ed il nucleo centrale. Al centro di ciascuno dei tre nuclei farebbe passare perpendicolarmente un cilindro di legno chiaro di circa un metro per cinque centimetri, ben levigato, seguendo il movimento della spirale suggerita, dopo aver praticato un foro corrispondente all’asse verticale dal quale poi farà passare un cavo di acciaio che perfori dal basso il nucleo inferiore in plastilina, il primo cilindro di legno, il primo istmo, i secondi nucleo, cilindro ed istmo ed il terzo nucleo infine, il terzo cilindro, per arrivare ad uscire dalla sommità. La base del cavo verrebbe arrotolata e fissata alla base del primo nucleo (o saldata ad una scodella di acciaio, adesso non gli è chiaro) e la parte superiore svolta per due metri circa ed attaccata ad un gancio posto sul soffitto di una stanza. O alle travi di un patio. La base verrà a trovarsi a circa dieci centimetri da terra. Attorno alla struttura composta dai tre nuclei trapassati metterebbe una rete metallica a trama fine cercando di riprodurre una sfera.