L’ATTO FINALE

A mettere un punto,
così definire della posizione il
fatto intorno.
Spesso grasso intimo
a sagrada conclusione. E,
decidi, non si fa più
questo
gracidare consunto, non più
corone serenelle inchiodate
al sangue della scena
(o a un più modesto viottolo)
rompiamo il giocattolo!
qualcosa di più fatto, di sicuro
e d’intatto, una visione
finale
che ci tolga da qui, bruttodare,
qui
brutteparole,
qui,
in fila al vento quanto vuole.

E partiamo più in alto!
O non partiamo,
cosa cambia Maria,
non partiamo affatto,
stiamo a ripeterci le storie
guardiamo il sole quando sorge
ripetiamo!
la scena prima, costa poca fatica
la scena prima non vale,
e starla a guardare sublima.

L’atto finale, la soluzione
(affossata, affrettata, corre giù dalle scale
ha in mano una lettera marrone
non più bella ma libera si vorrebbe cantare
e canta meglio di prima
con un pane spezzato sul tavolo
del cuore)

l’atto finale, l’abbaglio
(sotto una pietra lapide fa l’oggi
conti con il giorno
e si sbrega ubriaco in parti
simmetriche, ma per questo
riconosce suo il volto, così
vedilo andare di lato, verme perturbato
vedilo
risorgere!)

Coro:
l’atto finale, la scusa,
il pareggio,
lo sporco, non riesco quindi
tronco, e statua ed
ìnnatura
mi, sacra, sfondo.

Allora si mettono libri dovunque, Roberto Roversi, e non c’è più posto dove il libro può stare, sono le parole dalle sillabe ardenti e quelle magre, a cagne cane, sono le bellissime autostrade che portano a Colon del paese perso e le brutte scombinate, le marce inquinanti, sono l’isole. Sono appena state costruite, le alte velocità, a forare l’amianto ma a disegnarne una, strada, respirare non è mai costato pare tanto. I libri stanno in  catasta e li  impiliamo, e li leggiamo a volte per poi dimenticarli, che tutti i libri si dimenticano, ne salvi tredici, quattordici, basta.

Allora le strade diventano segnano e ci portano sempre da qualche parte, che magari è forse lì. In realtà non c’è niente che serva solo. Tutto scompone e sporca, o era uno tenue, un miracolo, qualche sveglia che apriva la giornata di nebbia, lei accanto, il seguito precisato da un odore di fuoco di legna e lo scorrere del dito lungo l’argine fucilato, era un indaco in deriva e l’umido nelle ossa che la centrale idroelettrica ha scaldato, o il fossile, dove andiamo? In realtà non c’è niente ch’è sempre servo-mano.

Allora si dipinge la casa di giallo, e la tintura all’acqua fa salire il salnitro e le righe della muffa prima, sin che  il caminetto che non tira funga la dispensa e l’aria è più tranquilla. Mille morti e moltiplicati per farne altrettanti, nei vuoi libri molte parti mai unire, ed io li amo. La sganghera, la discesa verso il basso, e l’alto delle lacrimose ossa di discesa, la possibile austerità la benigna nasce e ferma. L’alzano. Dai libri allora, dai libri scelti, dai testimoni, e dalle visioni, rosicchia un battito e da lui viene ma troppo tardi ma troppo presto partono.

Allora si va a dormire senza sonno, che non basta , Roversi Roberto, questo a raccontare quello che i mille tanti morti sognano. Sono che li guardi fare, sono che li sai, ma mai sapere è uguale e si schianta contro la fabbrica e il muro, da dentro a fuori il suo veleno denso e quasi mite, una diossina, un’anidride, e non le ho sparse/sentite ma mi sono riscaldata e ho costruito roba a Breda. Non mi concilio con questi amori, sai, devo tagliare la neve, ti ricordi? Che la poesia ha il freddo che non tiene? Che non lo tiene mai?

La pena , la vergogna ed il risentimento volteggiavano torno torno il capino della Misera.
Neanche di prima qualità. Intanto ci voleva uno strascico d’odio, e non l’aveva, poi quel filo di vanità garibaldina a rubino solitario incastonato in oro.
A sentirli parlaricchiare, loro,  sembravano contenti. La pena contava i morti , se li infilava come perline e pronunciava spasimi. Un lavoro orrendo ma la sosteneva.
Eppoi la pena soleva nutrirsi dei questi cadaveri, per cui piangi piangi ma ma s’ingrassa. E aveva un suo modo obliquo di stravedere per una vittima a caso, cingendole la vita e mormorare all’orecchio le parole consone, una pena così, ma una pena così, appena…negava, ecco, ogni possibile esistenza d’altro e s’infossava nella penombra greve dei suoi capovolti, dei suoi sfigati e delle sue puttane.
Per le puttane aveva uno speciale mantra, il loro sordido destino le scintillava in parole proprie e copriva di lacrime la tazza; l’umiliazione ripetuta, il sacco a vento. L’imene sparpagliato e le fracassate sante. Lo svolgimento preciso della consegna del corpo. L’occhio dell’altro che stipula. Paga. Si gode lo spettacolo. E che fossero donne.

Che fossero donne le pareva basale. A chi manca. La voce, la forza, la direzione e la punta. Nell’inventarsi il limite dell’onorata create tutte le storpie. E a far gazzarra con l’indice tutto il creato in coro: la puttana monetizza. La pena non ne può più. Si rivolge ai bambini affrontati. Cerca fragilità ed innocenza intaccata. Allunga lo sguardo dove può e dove può è dove vuole e dove vuole è dove spacca e dove spacca è dove ha desiderato e dove ha desiderato è dove era sporca e dove era sporca è dove era pulita e dove era pulita è dove forse iniziava un altro.
Ma dove era un altro lei non c’era, piangi pena, piangi dove l’hai mancato, dove s’è formato un punto impellente e stracco e dove s’è congiunta la pelle all’odio, nella doccia, nel foglietto, nel tronco sodo di maggiociondolo scarico. Piangi pena del poco, del niente, dell’insufficente, piangi della conformazione biforcuta e dell’asilo che non abbiamo avuto. Almeno. La tua, lacrima, scende a magnificare l’ostrichetta, lasceranno soldini.

La vergogna, a questo punto, non osava. Fino in piazza spinta e sotto il grande occhio incandescente pendeva dalle labbra enormi dello sguardo di una mostressa. Non sembrava possibile andarsene da lì.
Lì che era mondo e lì che era peccato, ma più che peccato era esposto. Nulla dico che proteggesse, nulla che strutturasse paratie. Tempietti. Recinti, caravanserragli, capannine, dico!
Era tutto aperto, stanze senza porta e verità scintillanti. Sporcume a te, pan degli angeli, ascolta amplificati i borborigmi nodosi della merda che scende, dimmi quanto vale. Era tutto aperto, una ricerca estenuante del nodulo sé, parla, parla, dicci tutto, ti vogliamo vedere intero e interno, scannato, ogni molecolina di base, non toglierci la materia pulsante di te che ti fai e ti sciogli, amore centro preciso proprio lì.

Al risentimento mancava materiale, per cui di lui non scriveremo, sappiamo solo che volteggiava contento torno torno alla Misera. Sperticato.

Materiale:
. Moravia che dice che i suoi francesi preferiti sono Proust e Stendhal. Flaubert è tronco. Ma lui è figlio di Dostoevskij.
. Il funerale di Pasolini, Moravia che dice che un poeta nasce ogni cento anni. Quasi piange. Piange.
. Montanelli restaurato che chiama Moravia pigro, e un po’ lo sfotte ("è solo scocciato"), Montanelli che balbetta davanti a quella che è forse la sua prima esperienza televisiva, Moravia che si presta al gioco e si fa portare il caffè dalla serva che gli chiede "quante volte sta l’otto nel quarantatre"; lui sbaglia, lei lo cazzia.
. Ma fanno solo finta.
. Grace Kelly che riceve un gioiello al giorno la settimana prima del matrimonio.
. La MGM.
. Quello scrittore triste che parla su radio tre di Hemingway, subito dopo Fahrenheit con le acca, e insiste sullo svaporamento, sull’ebbrezza, sull’aspetto mi verrebbe da dire onirico di lui, e anche di Fitzgerald. Ovviamente lui usa una parola che non ricordo adesso.
. Capossela e Degli Esposti che, mai incontrati prima, si annusano in una trasmissione delle quattro di mattina su rai che scoprendosi quasi uguali, mah, però comunque entrambi stralocchi e geniali. Quelli attorno che managerialmente si imbarazzano.
. "Un figlio come lei"
. L’elenco dei traditori sul Don Chisciotte prima dell’intervento del curato e del barbiere.
. Il caminetto che tira male il suo fumo ma soprattutto le correnti obbligate.
. Saul Bellow, l’eroe "negativo", il deuteragonista, la scrittura preziosa.
. Chicago 1983.
. Il compleanno di Sabri, 36.
. Sodoma e Gomorra. Salò.
. Le invasioni barbariche e il declino dell’impero americano: Denys Arcand uno due, tre volte, le lac Brome, le parc Lafontaine, Men without hats, la cucina etnica, Sylvain, Elisabeth e tuttiquanti.
. Montréal.
. Montréal.
. Montréal.

Certi fra voi (karpos remix trasformativo 2004)

Rodan

Certi fra voi
visi pallidi
che vi grattate le braccia mentre
succhiate Plotino e provate
a pettinare le onde e i vostri cuori,
hanno riposto
senza ripensarci
un obolo e un rubino opaco
sul loro spirito defunto
avvolto in bende di vetro —

Certi si portano dietro nel carretto
tutti i desideri albini
che si contorcono carcerieri,
tirando come stalloni
la briglia che incide
il loro corpo da saggi
ma saggi non sono ma ingenui
e sprovveduti sognatori perditempo
già assennati
che non sanno farsi una Ragione
prigione
del perché continuano a cercare
se stessi proprio dove
finiscono
senza nemmeno un tonfo
ma con un canto tronfio
immortale
dove si piega una margherita.

Ecco potete
anche stracciarmi
in brandelli gettarmi
nel vento fuori dalla finestra
o giù per la tromba delle scale
ma i miei pezzi
si avvicinano per ritrovarsi
e suonare di nuovo,
voi
neanche tutti assieme potreste
concepire quel che
concepii io
per l’universo e le ossa
stanche della terra che ancora
riconosce il fetore
delle mie Passioni orrende
e delle sconfitte a venire,
tanto che si sente tradita
con un amante diverso
ogni giorno più bello.

Siete sabbia ora,
ma presto scorrerò su voi
compattandovi e sarete
la materia per l’idolo
con cui vorrete adorarmi.

Insieme saremo
Festività
e avrete il coraggio
di mettermi da parte
assieme ai bicchieri di cristallo
e le candele
per gli ospiti buoni
cui mi mostrerete orgogliosi.

Ubayy

Certi fra voi
che vi grattate le braccia
e provate a pettinare le onde
hanno riposto
un rubino opaco
sul loro spirito
avvolto in bende di vetro.

Certi portano desideri albini
e falsano le parole dei saggi
ma saggi non sono: sognatori

che non si fanno ragione
del cercare sè stessi

dove invece finiscono.

.

Basterà un canto,

dove si piegano margherite
e nel vento dalla finestra
o giù per le scale
i miei frammenti

si avvicineranno per ritrovarsi
e suonare di nuovo

stanchi della terra

che ancora fiorisce,
delle passioni,

delle sconfitte a venire.

.

E come sabbia
presto scorreranno,
materia per idoli
da adorare
e bicchieri di cristallo
e candele.

Silvia

Alcuni che siete
musi bianchi
pruriti radiali
in lecca-lecca di filo
ordinando fiotti ed amore:
porsero
caparbi
un dono un prezioso sangue
sul morto afflato
in garza cornea.

Alcuni in baule
alba desideria
a gabbia ingroppa,
e tensione da monta
che il collarino
l’edema savio segna
poverini
sciapi sonnambuli
in ritorno
arazzi
cages
e come trovare
se
al termine?
privi di rumore
però inni
eterni
al fiore.

Ora
fatemi a pezzi
buttatemi
fuori
in cavedio
ma tutto
insiemato
ricomponesi
e vi
surclasserà
( non creerete questo
che creo, io)
(cosmi, carpi)
in bare desolate
con l’odore visto
del mio marcio cuore
con prossima perdita,
cornute, dicono,
per molti,
magnifici.

Grani,
vi scivolo
e dal pongo
dio avrà la ciccia
in mia prece.

Diventati
ringraziamento
forza!
scostatemi!
con le flutes fine vetro
e i ceri del voto
agl’importanti
fattomivi vanità.

Ubayy

Alcuni che siete, bianchi
& C.
orinando a fiotti amore
ponete caparbi
un dono prezioso
di sangue morto
in bauli d’alba
.
desiderate gabbie,
che edemi corallini
segnano sonnambuli
sui vostri volti
.

come trovar-si se non al termine…
“ E di rumore privi?”
.

ri-assemblato
vi surclasserà
( non credete a questo,
io non creo, nuovo redentore, macrocosmi)
il mio esser-ci in bare assolate
con l’odore del mio marcio
e la prossima sconfitta,
.

dicono che
per i molti magnifici grani
che ha la cometa
di HA
L
L
E
Y
io scivoli
(come Alessandro il bicorne)
nei sogni,
diventato
ormai
un

ringrazia-
-mento
………

Luigi Romolo

Alcuni – chi siete?- BIANCHI
perfetti nel Sangue imMoto più
stanco – Morti di Luce se Il Sogno.

Quale è stato – In Fine – Il Dono?
IL DEDIDERIO di stanarsi e Sé
Dalla parte Interna del Sistema.

È trovarsi – qui nOn altrOve
nel 2061 – dicono i Morti.
Ma NoN è il solo multiplo
O granoFotone di corallo
Che – basti – si possa RAggiungere
Nel qual tempo (albedo quasi zero) Sognato

Alcuni trovano – Se non al termine
il senso O rumore di Orbite Ellittiche.
Vanisce, eppure, nel brillamento regolare
Il senso dei cristalli – infrange un passaggio.
Qui, da 8 minuti, Il quasi Sole è il Dio rinGraziato.

Ubayy

ci siete?-
prefetti del Sangue in Moto +
stanchi
morti nella Luce dei SUNG? (e qui ci stava bene un ideogramma alla maniera di Pound)
(parafrasi dell’ideogramma: “tagliate i miei alberi” ) —qualche sciocco ratto, alla ricerca dell’arca, sull’ARARAT— [E .Pound “THE EMPEROR”]
Qual’ è il nostro stato? – Il Fine è Domo?
O è ogni volta DESIDERIO ?
trovarsi – qui nOn altrOve?
Dove indovino orizzonti, cataste, montagne di morti? [ante o post data: 00-00-10149]
Ma non è isola solo multipla -O grammofono di corallo –Oh grammofoni
Di cor-Hallo?
Nel qual tempo albediante sogno radianti?

Alcuni trovatori – Se non al termine muovono: [OH il rumore di Orbite! ]
Nella brillanza : DIRECTIO VOLUNTATIS
senso dei cristalli e fraseggi di sole, sui tendaggi.
Qui
fra 8 minuti, Il quasi
Dio verrà buttato
Nell’immondezzaio.

Luigi Romolo (intermezzo)

Sottile è il Signore ma non malizioso, diceva Albert.
A indicare che la natura non nasconde il suo motore, ma occorre saper trovare.
Ho gradito.
E ti dedico l’esagramma 44

44 KOU o INCONTRI IMPROVVISI

Bisogna prendere precauzioni per evitare un pericolo. Sono necessari buoni alleati.

SENTENZA: Incontri improvvisi. Compare una ragazza forte e audace. Non bisogna sposare una donna del genere.

COMMENTO: Il tenero si fa incontro al solido: la linea debole incontra all’improvviso le linee forti. Se si contraesse ora matrimonio, non durerebbe a lungo. Un incontro fra cielo e terra dà come risultato la creazione di tutte le cose. Quando le linee forti si trovano nella posizione centrale e corretta ogni cosa nel mondo progredisce a meraviglia. L’importanza delle cose da compiere in questo momento è grande davvero! L’uomo mediocre e indegno comincia a insinuarsi nel governo del regno: occorre tenere sotto controllo la sua influenza.

IMMAGINE: Vento (Sun) che soffia sotto il cielo (Ch’ien). Il governare emana i decreti e li fa proclamare nei quattro quartieri del regno.

Silvia

Eccovi.
A burocràzia ematica dinamica
stremati
rinsecchiti di deità (prego, la diapositiva)
(quella della quercia stesa, carduccia)(topi grulli provano a
salvarsi in monte santo, di Ezra, imperatore).

Come stiamo? Avremo apoteosi filtrate?
O ti tira ancora?
Sempre lo stesso luogo?
Che so diritto, occupato di motte di cadaveri (in una data qualsiasi)?
Che sta solo tramonti trafitto da favilla bestiolina aranciata
musicale?
E mentre l’alba emetteva l’IO inconscia, l’IO radia?

C’è chi afferra – ma soltanto dopo ( ha suono ellittico).

Sbarluccica – di libero arbitrio.

Ha direzione di rocca e periodo del sole- su Persiane.

E adesso

(sette secondi circa)

il dio saltò

nel non-mondo (un cestino).


autori: Rodan, Ubayy M.H., Silvia Molesini, Luigi Romolo Carrino

(sempre revival, zs61)

 

Lì, infatti, nel cielo di novembre come si presentava, ebbero inizio i canti lamentati da Gravida.

Si usciva poco, niente invitava al pic nic, e nulla che variasse e promettesse il fiore. Lo Scultore

preparava il busto di una specie di dio, se ne sentiva la mancanza, diceva, perché tutto era diventato, nel tempo, nello spazio del tempo,

anonimo, indifferente (che non si distingueva dal resto),

possibile, privo di meraviglia, spiegato (che aveva la pretesa mantenuta di un disvelamento riconosciuto)

urlato, conosciuto, allineato (per poterlo vedere meglio)

ma anche dichiaratamente buono, avvicinabile, consenziente e poi banale, troppo accessibile quindi

prepotente, intelligentissimo e stupidissimo contemporaneamente, tutto l’attorno che appariva ma si introduceva

anche nei libri, anche nelle scuole, anche nelle leggi, anche nelle aspettative di risposta professionale

e anche nella lingua e insomma nel senso delle cose,

era diventato uno schema. Quindi facile da leggere, sintetico e completo, chiaro e pulito. Esaustivo.

Allora lo Scultore faceva questo busto a immagine di demone, dimentico di una tradizione che ne aveva pensati e subiti molti

volutamente, volutamente, volutamente dimentico : quei molti avevano portato allo schema, e lui – lo schema- lo voleva distrutto.

I canti di Gravida, che lamentavano, non seguono le direttive dello sconosciuto di sopra.

Fanno qualcosa come: oh nascita, oh morte, parolissime intonse, vieni qua vieni qua, ho sognato di scale, ho sognato di case, condomini, il mio appartamento sempre all’attico sta franando, mi sono vista nuda salire salire salire le scale e davanti mio padre, e mia mamma sul pianerottolo davanti alla porta socchiusa, oh torri oh castelli, mio fratello nella loro testa mio fratello presente, io nuda con la mano davanti alle tette – cosa guardi?- mio padre si è girato, io abito dall’altra parte ma sulle scale- oh giorni oh prigioni- salgono altri, salgono colleghi di fallimento, figli di papàpapà

Smille con il senso della neve che salvano gli agnelli, maschi però, c’è anche l’ascensore, ma è sempre rotto e poco sicuro, la porta non si chiude, tocca legarsi una fascia alla schiena e risalire per chiodi, punzoni, sembra una vera scalata alla montagna, ma è possibile farla solo obliquamente tra i vari piani, un muro di cemento con mensoline lunghissime, mio fratello mi dà indicazioni su come fare -oh castri, oh stagioni- quella casa continua a riproporsi, come una cosa che non è una casa, ricorre con modifiche minime e che castellaccio, che mura, che precarietà ma che solidità, che mondo di scale che c’è chi scende che c’è chi sale, e frane, e intonaci sbrindellati, e finestre sui tetti per guardare i vicini che sembra si possa toccarli ma si finisce sempre col cambiare stanza, sono stanze abbandonate

oh inizio oh mai fine-

abbandonate che manca sempre qualcuno, un’attesa modestamente infinita, un piazzare oggetti per poi scordarseli, letti e cucine, fotti e non mangi, la polvere copre e sfarina, lunghi vetri dividono ma lasciano passare la luce, ma è strana questa luce, mostra, mostra, mostra, nell’angolo buio di quella che diventa a volte una casaccia tetra solo mostri. La parte privata del sé? Mostri, diavoli mangiatori di carne.

Io ne ho tre, anzi ne ho quattro

sono cinque

brunebelline e forse rubie

le ho fotografate per una, una

ne ho sei.

Scrivere sembra fatica, fatica

ma scrivere scivola come non saprà mai

come uno scorrimano e un pendolo che spicca

volo uguale spinta minìma

le altrove menti, che menti

prendono il cucchiaino e lo girano in tazza

che come sanno farci loro non

puoi non puoi non spieghi

(scrivere sembra che dica)

mica è sgretolare pollini

mica è modificare pruni

mica è scodellare perifrasi

scrivere è santo

e puntella l’aria pàtia

e ricomincia subito sbadellando

scrivere è dopo

ha il pretesto del cerchio a sussidio

ma sale es cende, si dipana

un rocchetto di filo diseta disseta

anche lei, stupefacente

ha mondo ha blu ha lei

coerentemente

un grande pensiero e

un piccolo pretesto

19 capitoli riproposti
18/05/2005
Sono nata il diciassette settembre millesettecentocinquantuno a Kanchipuram. Govinda Puri, figlia del maremoto, non distante dal tempio di Parvati, non distante dalla palla di burro di Krishna. A lungo ho mietuto il grano con la mia famiglia, giorni e notti, e ho imparato a fare corde con la canapa.
Sposata a diciotto con una dote di tutto rispetto ( millenovecento rupie e due capre e sette sari) ho dato sei figli (quattro maschi due femmine) alla famiglia di mio marito e ora vengo nei recinti a fare collane di fiori per le puje e le commemorazioni. Il mio cane, Baubo, se la ride ancora della storia che ho raccontato ieri a Mahati, la mia sorella minore, quella della signora delle spezie – devimasala-  inciampata nella radice del mango.
Stasera faremo il fuoco accanto ai carri del nono giorno lunare di febbraio-marzo e la riracconterò. Nella mia città polverosa comunque il fuoco dura il tempo ch’io la racconti.
 

 
23/6/2005
Sono morta a Nalanda, mancava poco alla laurea. Sedevo accanto ad un uomo scuro quando vennero da me le streghe. Rifacendo il viaggio del ritorno incontro un’acre così tenera donna che si riprende il bambino – gioca ai dadi con la banda vicino alla spiaggia- e quell’altra pascola le bufale fin lì, le fa lavare dall’acqua del mare spumoso vicino all’europea in costume rosso (così ci è sembrato dalle foto) e loro non vogliono entrare per cui usa un bastone delicatamente, si, ma poi mica tanto, si arrabbia, si imbroglia, poi però le bufale entrano nell’onda, prendono il fresco, si lavano quantevvero dio.
Rifaccio il percorso dell’andata, ecco, butto qua e là con i piedi le fini reti azzurre, le trapasso, raccolgo sassettini, fino al tempio lungo sulla spiaggia, Mammallapuram la destinata ai maremoti, non so poi se è successo monumento dell’umanità, protesi di pietra morbida alle cariatidi, baretti fighi che neanche a Boracay.
Mi fermo per la foto dove sistemano sari shocking e candele e birra nel menu, lui ha gli occhiali tondi che precedono una faccia, lei magliettina arancia e ci rivedremo alla fermata degli autobus per l’interno, forse le colline della transumanza degli inglesi. Ma forsennati passano quelli della bicicletta, fanno un comizio ogni sei ore, boia se gridano da certi altoparlanti, quali concetti quali fole quali sostanziali battiti, e radunano i miei fratelli le mie sorelle, due o tre zie, poi magari andiamo a guardarli quando erano in città dalla televisione di Siddha; Nalanda era il sognato allora.
Importa che il sottile dio dei transistor non condanni il fatto di non averti amato, Asimo, di non avere accettato nella mia poca fortuna una pelle macchiata, un dito troppo piccolo, le unghie disegnate male, il naso grottesco. Al dio della piccola luce ritagliata sulla parete davanti non deve sfuggire che è stato un attimo l’averti e che ti ho benvoluto e difeso, sposato e gestito e fatto figliare, onorato nelle notti delle stelle di fragore come un marito, che sei stato un marito e padre e il dio davanti non vorrà dirmi che ho sbagliato se non hai mai avuto il mio dolore.
 

 
9/11/2005
 
Dopo la morte Faust viene accolto nel "coro dei beati infanti". Io non so se Goethe con questa singolare idea si riferisse agli Eroti sepolcrali antichi. La cosa non è impensabile. La figura del cucullatus ( cfr. Kerényi: non essere separati dalla non-esistenza e tuttavia esistere) indica il velato, cioè l’invisibile, il genius del trapassato che riappare ora nel coro infantile d’una nuova vita, circondato dalle figure marine dei delfini e delle divinità delle acque.
Il mare è il simbolo prediletto dell’inconscio, madre di tutto ciò che è vivo. Poiché il fanciullo in determinate contingenze (per esempio nel caso di Ermete e dei Dattili) (il nome Ermete significa cumulo di pietre ed è passato a indicare l’erma, che in età antichissima doveva essere solo una pietra ritta ed era spesso collocata sulle tombe) ha una stretta affinità con il fallo in quanto simbolo della procreazione, esso riappare anche nel fallo sepolcrale come simbolo di una rinnovata procreazione.
Il fanciullo quindi è anche renatus in novam infantiam. Non è soltanto un essere all’inizio, ma anche un essere della fine. L’essere dell’inizio era prima dell’uomo, l’essere della fine è dopo l’uomo. Questa tesi, psicologicamente parlando, significa che il fanciullo rappresenta simbolicamente l’essere preconscio e quello postconscio dell’uomo. Il suo essere preconscio è lo stato inconscio della piccolissima infanzia; il suo essere postconscio è un’anticipazione per analogiam della vita dopo la morte. In questa rappresentazione si esprime l’essenza completa della totalità psichica.
La totalità infatti non si limita alla sfera del conscio , ma include in sé anche tutta l’ indefinita e l’indefinibile estensione dell’inconscio. La totalità è perciò empiricamente di inestimabile ampiezza, più antica e più recente della coscienza che racchiude in sé nel tempo e nello spazio. Qui non si tratta di speculazione, bensì di immediata esperienza psichica. Il processo della coscienza non soltanto è costantemente accompagnato, ma è spesso anche guidato , alimentato e introdotto da processi inconsci.
Il fanciullo aveva una vita psichica prima ancora di avere coscienza. E l’adulto stesso dice e fa cose di cui soltanto più tardi capirà, se mai capirà, il significato. E tuttavia egli le dice e fa, come se lo comprendesse. I nostri sogni ci rivelano continuamente cose che esulano dalla nostra comprensione cosciente (perciò sono così utili nella terapia delle nevrosi). Da fonti ignote ci arrivano intuizioni e percezioni. Paure, umori, intenzioni, speranze ci sorprendono con una causalità assai poco evidente. Queste esperienze concrete sono alla base della nostra impressione di non conoscerci sufficientemente e del penoso sospetto di non essere al riparo dalle sorprese che noi stessi potremo causarci.
L’uomo primitivo, invece, non è per sé un enigma. Il problema di cosa sia l’uomo è sempre l’ultimo che ci poniamo. Ma per il primitivo lo psichico oltrepassa talmente la coscienza che l’esperienza di qualcosa di psichico che lo trascende gli è molto più familiare che a noi. La coscienza circondata, protetta, sostenuta o minacciata e ingannata da forze psichiche è un’esperienza primordiale dell’umanità. E’ quest’esperienza che si è proiettata nell’archetipo del fanciullo, il quale esprime la totalità dell’uomo.
Il fanciullo è l’abbandonato e l’esposto a tutto, e al tempo stesso il divinamente potente, l’inizio insignificante e dubbioso e la fine trionfante. L’"eterno fanciullo" nell’uomo è un’esperienza indescrivibile, un’incongruenza, uno svantaggio e una prerogativa divina, un imponderabile che determina il valore o il disvalore ultimo di una personalità.
C.G. Jung, da Psicologia dell’archetipo del Fanciullo , "Gli archetipi e l’inconscio collettivo" (op. 9), Bollati Boringhieri 1997, pp.170-172. 
 
 
 

 
 
    9/11/2005
  
  L’Es è assolutamente amorale, l’Io si sforza di essere morale, il Super-io può diventare ipermorale, e quindi crudele quanto solo l’Es può esserlo. (S.Freud, cit. da L’Io e l’Es)

Le strutture della mente (1923)  a snocciolarle mi fanno pensare a te. Che vai con chi vuoi fregandotene bellamente  e ti sforzi di non fare male a nessuno ma poi, ogni tanto, urti con le macchine contro qualcosa, e ti ammali e passi sere cupe che non puoi dormire, o albe, a rovistare nelle decisioni prese.
Sei così triadico! Ma anche sicuro di te, così che ti sembri uno solo, solo uno, quell’una faccia che pari davanti a chi che.
Ora, Anselmo, ti parlerò a lungo dell’Es. Parto con un esempio: ho desideri. Di Schiacciamento-Stritolamento-Abbracciatura.
Ad avvolgermi comprimendo solitamente c’è quel vestito scelto con metodo e raziocinio nel maxmara di via mazzini- il tubino nero che mi blocca la coscia ed il body che stringe e sottopone, la guepière, la cintura alta con la fibbia all’ultimo buco, la mini plastificata, il fuseau, il collant, la pancera-
La maxi stretta, la maglietta una taglia in meno, il ginsino, le decolletèe col tacco a spillo, il tailleur, il corpetto di raso, l’abito da sposa (quello fa un bel lavoro, t’incorpora come poco, t’inanella ed innalza, spinge dove deve e bilancia il peso in trascinamento.) Poi ecco:
hai presente il vitino della Barbie? Nella bambina il mito affusolato, quel desiderata, crea mostri sottili e, per forza, altissimi. Ho il desiderio di quel mostro, mi sogno pasta stirata da mattarelli, un pre-gnocco, una brisée assottigliata progressivamente dal tocco e nella giusta farina.
Una voglia immensa di afferramento, come la chiameresti tu? Un fondotinta spesso. I guanti fino al gomito. La giacchina. La borsina. L’orologio scomodo. Un anello, due, per dito. Mano destra e mano sinistra. Il collo attorcigliato da una serpentina d’oro. Piercing sulle commessure, ai lobi, alle narici, un marchio indelebile sulla pelle che mi disegni tutto lo stupore possibile, che si veda che voglio un contorno!
Allora, dice l’es, facciamoci ‘sto esterno- Abituiamolo al ritmo degli umori di stringimento e cattura- Schiavo nostro, voglio, servomeccanismo, spago, bondage, scotch-

 
 


 
 9/11/2005
 
CANTO DELL’ATTACCATA A TUTTO


 
 come a te lei ha saputo inchiodarne diverse
alla balla del seno e alla fotografia del nero
si sono susseguite le strette e le disperse

ha detto male
l’hai vista buia
aveva stelo a paura pura

come così potesse scegliere sempre chiedemmo in vano
(una stanza bislunga fotografata dal basso)
come questo fosse vivere sempre morimmo a stento
è santo movimento
un calasso

a tre a tre le allineo le mie idee diverse
e non ho fatto molto per aggiunta di valore
pastora delle bestie
assolata assola
e candore
a creste
a crepe
e muore

te ne canto l’elenco:
per queste
cose
ho perso prestigio ho perso
onore
per queste
porche
mi è scivolata sull’anima riordinata la vascella del tempo perduto

mi si è spento l’esempio visto che cantare a canto accanto muto
e ne ho ritrovate settantuno
di cose
le ho dorate (come dice Gurdjieff), levigate
le mie letterine
una ad una per un’impresa d’esistere
sfasciante
erano tante
non ne rimane una.

Si sono sperse spante.
Le sapevo frontali e immutabili
si sono perdute le cancellarono gli imponderabili
povere piccole cose dal disegno e lo smalto e la grana del vento
cri cri e cocò, le mie risposte, loro
passano
non ci sono

ficcano.

Si sono lacerate per moti di confine
l’abracadabra non ha funzionato
morto domani,
un ladro.

C’era lei  che rideva delle prime doriche
e lei che pissiava in a river
e lei che non la smuovi
nessuna compassione
va a forzare la porta e infila l’ago e rapporta
e lei che inventa
un mondo lineare
un facile procedere
e un equilibrio preciso per la stella di scorta.
C’era: si muovono dolcette le sue splendide mani
ha sputo accalappiare sulle persiane ardenti
ha groviglio simpatico sulle sponde e le offese
e non dimentica mai di ringraziare
c’era un fumo disegnato
e si attaccava a tutt’altro.

 
 
 

 
 
   9/11/2005 (ma sono dell’agosto)
APPUNTI PER LA DEFINITIVA STESURA DEL ROMANZO

Una  poetica del suono significante  versus una poetica  dello spiegato- Hoderlin-
Nessuna di queste-
La necessità del tema, la legge del padre-
La madre divorante, la madre totale-
Il cinema come punto fermo: soltanto quelle immagini, il loro intersecarsi, le loro associazioni/ procedere per associazioni di immagini (appunto)
Il sogno come cinema (interiore) non mediato-
Il viaggio nei libri:una loro particolare inclinazione al fantastico dell’elemento forte della ricerca storica- Vassalli-
La Chimera- La notte della cometa-  Marco e Mattio-
La lettura del libro, il luogo, la lettura del sogno, il modo-

La digressione poetica sempre più spesso, un disordine che preme e vuole fare valere leggi diverse, una storia diversamente ritornante che non se ne stanca mai. E’ la sola che non si stanca di nulla, e tanto meno di quel suo iterare, ha un nucleo apparentemente immortale, imperituro, numinoso.

Il gruppo femminile distruttivo e volgare- La balorda versione fascista-
L’animale tenero e amorevole, la comprensione animale-
L’anima le comprende-

Quella che perennemente bisogna resuscitare/sollecitare-
La donna che rivendica il posto del suo corpo, un corpo al suo posto; le letture psicoanalitiche. La referenzialità-

L’inizio e la fine che scambiano; il Tao, nel leggerissimo il pesante- Capire tutto- Non ricordare; lo stile piatto della mancata evocazione-
Non sapere scrivere racconti lunghi-
Liquidare in fretta tutta la trama-
La morte che non può essere detta-
Il mondo della rete, nomi e cognomi-
L’esperienza dei mille scrittori sincronici- Lo sbalordimento- Il caos- L’assuefazione- La perdita di motivazione- Lo stallo-
La depressione-
Il rapporto dello scrittore con il pubblico: il lato della lettura-
La voce, il gesto, il tono. Lo spettacolo. Il clown-

L’area della citazione: Highsmith dopo diario di Edith-
Quelli che bussano alla porta-
Rifacimento del Caligola- Solo il primo atto-
Rivisitazione automatica dell’ultimo capitolo dell’Ulysse-
Selezione arbitraria (una parola per riga), scelte intenzionali ( ma se fossi in una prigione quanto motivo in più avrei per ricordare?), traduzione attraverso motore pesce di babele, aggiustamenti-
Lettere d’amore, loro declinazione-
Tentativi d’incipit-
Trascrizione degli appunti di un convegno a Urbino-
La poesia dell’immenso-
La sua firma storpiata (es. Scardanelli).
Pasolini e la poesia dedicata alla sorella-
Esemplare riscrittura del Canto dei dolori di Prufrock-
Fatto femmina = ma la femmina rivuole il suo ragazzo, Tadzio Dartagnan, il baffetto disegnato con la matita sul labbro superiore infantile, pre-masturbativo.
All’India per quel ricordo essenziale, e lo straniamento-

2
Le immagini effettive (le foto, le foto dei quadri) e la prima volta che tincollo senza sporcare-
Incollo un quadro che mi manda la Chiara Yorke, che mi sparì, un quadro di desco con figura femminile che aspetta affianco alle tazze del desinare, la testa inclinata, raccolta, persistente_ E’ un Campigli, se mi ricordo, e io di lui ho visto cose più scabre-
Se mi ricordo. Averla perduta, Chiara, è male-
Poi attacco la mia col sorriso di gioconda sul traghetto per Ellis Island. Moltiplicata per otto.
Sezionata. Poi:
trovare il mondo fuori e stupire-
L’estate regala agli abbandonici motivi di riflessione sul mondo "virtuale"-
Tutto termina secco, si riscoprono le connessioni effettive-
E’ balordo che non riesca in altro tempo-

Altra immagine quella della flautista, l’aeda- O l’aula?
E’ seduta, è inclinata in atemporale leggera ma pesa, tutta la femmina che è –
Poi:
il paesaggio naturale che diventa paesaggio culturale-
E le parole non sono più le stesse, seguono il suono ma danno diverso significato, e sommuovono la sintassi la grammatica e tutto il logos così com’è-
Un enigmista avrebbe lavorato con la sottrazione di n. stabilite lettere, ma la possibilità della trasformazione creativa, che non applica regole, unicamente fa il verso all’ingroppo enigmistico, e toglie e aggiunge ciò che vuole, segue il ritmo del linguaggio che ne esce, astrae aggiunge mormora piazza perfonde sta.

3
Marcos parla di Ramona e mostra la pezza che ha tessuto, il ricamo lo chiama.
Dice: questo dovremmo fare, questa cosa , questa tela (sono strisce verticali di colori diversissimi, il verde foglia,  il giallo cromo,  il lilla,  il cyan) (hanno all’interno piccoli motivi decorativi, forse linee che si avvolgono a spirale o traccianti frecce, motivi geometrici, non credo fiori), assieme. Non un melting pot. Un’associazione di intenti diversi. Col cappuccio in testa.
A me ricorre la storia; penso a quanta sicurezza arrogante da sempre viene dall’attualità, il sentimento di stare vivendo nel presente e magari di riuscire a controllarlo, in qualche modo, perché è qui e ora. La bella normalità dell’acqua calda e del postino, del telegiornale e del supermercato; la bella democrazia delle due solite guerre mondiali e del nonno partigiano e della zia giovane italiana , trapassati remoti quanto le guerre puniche, comprese la fame e la tubercolosi, compresa l’umiliazione delle donne e dei bambini nelle industrie dei bachi, e le scarpe sporche del padre-bambino  per i chilometri a piedi prima di entrare in classe (notata l’entrata). Quanto piccoli erano. Cos’avranno mai fatto per crescere e diventare moderni? Forse anche morire, qualche volta, si morrà nelle guerre, o è come giocare a risiko? Forse per qualcosa si saranno mascherati da "parte di un tutto" e avranno fatto marce non pilotate, e scritto articoli, e rotto contratti, e passato le frontiere, e portato soldi dove non ce n’erano, e coltivato piccole aree aride inventandosi condutture, provato ad ammazzare despoti, rinunciato ad appoggiare partiti, fondato partiti, aggregato scontenti , per qualcosa che è parso un valore, o per prepotente necessità, anche questi avranno provato rivoluzioni.
Sullo schermo ora mondi apparentemente anacronistici (sapevano dei campi, sapevano) (era anacronistico) (sapevano) (c’era la guerra) (sapevano) (c’erano le file per lo zucchero) (sapevano) (c’era la morte del figlio soldato) (lo sapevano là), sullo schermo dicevo vediamo per tecnologia stati separati da medioevi e forti prese di posizione, in quasi diretta, e ci sembra non vero. Pensiamo a montature mediatiche, il nostro presente è ancora così con-cre-to! Come può accadere questo a noi? Tutto ci fa sentire parte di un ordine incrollabile, sintetico, adesso.
Ma Marcos parla di Ramona e mostra le pezza che ha tessuto, lo chiama: il ricamo.
 
 
4 
 Ci sono state stagioni nelle quali veniva fatto di dire che sparivi, aggrovigliata ai sentimenti singoli, e che niente partiva da un calcolo preciso per cui se qualcuno ti avesse presentato un gatto, uno scricciolo, una persona li avresti comunque trovati maghi e condivisi, nell’impeto intendo di quell’entusiasmo premente.
 Ma sono seguiti sempre momenti molto ritornanti. Alle solite, al tempo conciso, alla sdrucciola sorte. Affaticarsi a trovare un parcheggio e non sapere se poi ne saresti uscita bene, e mille giorni interi a cercare un disco, e diecimila a studiare: ne converrete che non potevo che essere lì.
 Il soffio delle sette è organo intriso e meglio, molto, dormire; mentre alle quattro appaiono le streghe ma questo volevo: dire che questi che scrivono difficile non li capisco bene, magari mi affascinano e li annuso e nell’annusarli mi intenerisco ma l’inghippo del codice proibito, la citazione soffice e l’intarsio dell’ironia forbita, e l’esagerare l’indicazione, e il suggerire la deficenza, e il dare fondo al rumore ammiccando comprensioni sublimi, e continuamente ammiccando (a chi?) riferire di miti e personali a ettolitri, quelli lì, quelli soliti ma trasformati per pochi, le palle!
 Mi portano le parole, volevo porgerle come fiati e dono nel vento dei mercoledì e di novembre, e non ho mai pensato che dovessero rappresentare ostacoli per riuscire a descrivere, blocchi infami per servirsi di caste, penso alle parole usate come a note, anche caustiche, ma provenienti e divenienti e buone, o no, ma mai grovigli d’incastro aggratis. O medaglie al valore. O sciarpette identitarie.
 Penso a una strada che porti, ma attorno mi precipitano altari. Tutti arruolati al ghigno del posporre e privarsi. Alteri rari.
 
 
 


 
 9/11/2005
 
Sono morta a Milano, c’era la peste nera e mi venne incontro al mercato, con il mantello il coltello la ghiera ( che poi il falcone dell’anima s’involò dietro alla quaglia del dolore); sono morta a Milano città assediata, di peste bubbonica dopo un certo periodo che l’avevo incontrata, al mercato comperavo galline, non proprio grasse ma servivano e l’ho vista uscire dall’accampamento e avvicinarsi per due lire, un cappellaccio sul viso crepato, china sul bastone perché la peste ha il bastone del diavolo e parla chiaro. Dice:  
"Due lire, commare, che mi devo sostentare e lavorar non posso, faccia ‘sta cortesia, signora mia, che le pulci dei topi non mi vogliono addosso, e a nutrirle di sangue siete voi, diventan grosse e non muoiono facile, la conosce la favola dell’orco?"  
Ora quell’esecrabile volli scacciare con tutte le mie forze, che mi toccava il braccio e mi teneva il polso e tastava la mano, una pedata fissa allo stinco da far svenire un mulo le ammollai e quant’è vero Dio mi si accasciò davanti come una cosa spenta, mucchio di cenci, sacco di patate, la peste mi baciava i piedi come alle grandi dame- Urlai-
E così fui da lei fatta e conquisa, da allora non mi ha più lasciata andare come usano i diavoli ai crocicchi quando li incontri e a quelli stai a parlare.
Trascinatami così fin dai becchini chiesi che mi si sotterrasse ancora calda perché i miei figli rimanessero illesi. Ma anco sotterra la belva non mi lascia, e sopra quella non so se ho fatto bene, e mi canta per l’etterno la favola dell’orco che l’arconte delle pulci fatto cuoio aveva conosciuto e da sette fratelli fu disocchiato e ucciso, e poi decapitato, per una principessa magra che mangiare quarti d’uomini non usava. 
 Oh che morte da ratti l’è mai questa! Aah!
 
 
 
 
 

 
  28/12/2005
 

 
 
I sintomi sono chiarissimi, chiassosi: bruciore a livello di una vertebra dorsale, forse la sesta, la settima e l’indigestione, qualcosa di fermo al piloro, un senso di pesantezza- Gravida sta così, con la testa che duole, alle sei di mattina; aspetta che passi-
 
Piano attorno si prepara l’alba consueta, dalle finestre il lago apre alla nuova luce, un pozzo ancora nero a quell’ora ma diversamente riflettente.
 
Nella valle le case sono agglutinate per punto e la lunga traccia delle lampadine esterne e dei lampioni le designa, come fa con la serpentina delle strade che salgono sulla collina, come fa con il bordo lago, e magnifica i fari, come fa spillando le lampare puntinanti il pelo dell’acqua.
 
Nella valle le tuie cedono parti d’ombra, e i cipressi si scelgono, smettono di ciondolare al respiro della notte, aumenta lo stare e si condensa piano, col confermarsi del lieve nuovo calore, il suo umido- Le viti si parano come possono nell’infilata costretta, la vigna non s’accorge dell’arrivo del sole persi i frutti lustri e da poco potata e legata più fissa ai fili del ferro-
 
La casa dello scultore, il suo portone di traverso all’entratina di mattoni priva di pergolato, gli alti simulacri attorno e la loro ombra disegnata sul prato lucido e sui muri, orpelli enormi in linee recise, attorcigliate come bordi di lattine passate all’apriscatole; o corrose dalla ruggine di quell’abbandono esterno. L’alba della casa dello scultore doveva essere stata scelta, così come la sua posizione.
 
Un’alba scelta: perché poi, davvero apparita, il disegno dell’ombra ottica prolungasse insensibilmente la struttura portentosa, il fianco statico a quella monumentale batteria di arnesi a se stante; l’insistenza cimiteriale da relitto industriale seriato.
 
Abbiamo sostituito il paesaggio e il riflesso della cosa che arriva si accompagna alla moderna archeologia del moderno modello del reso brulicante pensiero dello schermo appiattente.
 
La casa dello scultore rimanda male, Gravida ci passa davanti e non smette mai di pensarci.
 
 
 
 
 
 
  28/12/2005
Lo scultore non sapeva a quali dei rispondere. Da quando lo avevano trovato steso accanto alla ferrovia, appena uscito da una canzone di Lolli Claudio, senza documenti, per intenderci, ma soprattutto ubriaco come quando ti dimentichi tutto il giorno dopo e molti altri giorni dopo ancora, da quel quando lì lo scultore aveva iniziato a comporre incompiuti.
 
Comporre incompiuti è un’arte unitaria. Servono anni di accademia, anche qualche master perchénno, e serve tempo dilatato e lieve sentito passare dalle ventidue alle quattordici via polpastrelli delle dita della mano. Serve un amore costante accanito accanto se si vuole praticarlo in casa (lavorare in manicomio non è comodo, è come essere un Fermi che aspetta i soldi per l’acceleratore nel trentasette italiano, la bomba la vai a fare negli stati uniti d’america e nel manicomio, in mancanza d’espatrio, ti resta quel prepotente delirare presto placato). Ma serve, prima di ogni, la ferma volontà di non venire mai processati dal reale o chi per lui, quella che impedisce qualsiasi tipo di manleva allo stato delle cose.
 
Comporre incompiuti è un talento, lo scultore ne era posseduto. Venti istallazioni-capannoni scoperchiate lo testimoniavano sul campo. Tira su travi a ti e le salda ortogonali alle putrelle della base, mezze interrate, assicura con fori e bulloni i tondini delle diagonali, va dai ferramenta ma gira anche le discariche (ultimamente lo rifornisce il cantiere edile di un amico, basta purismo per forza), tira in lungo anche venti metri di roba. Poi basta, di solito manca il tetto (che già con un tetto potrebbero far pensare a grandi gazebo e niente gli è più ostile dell’architettura). Quindi.
 
Lo scultore ha una sua poesia fissa che è poi il tiranno che gli fa tirare su quei nove per tre. Perché all’incompiuto è successa la barriera. Piazzata davanti al lago toglie ogni tramonto possibile alla vista dei decadenti, e i morosi vadano al belvedere miramira. La barriera deve occludere, matallica rugginante, sparata per aria come un menhir spiattellato, la diga del ferro imbriglia aria da aria, impone la sua presenza per-sé, in-quanto-sé, solo-sé e vale per quel che priva. La rocca, la valle, l’acqua e le mille mutevolezze del cielo perdutamente aperto di qua.
 
 


 
 28/12/2005
Non d’arte oggettiva s’occupava lo scultore, avete visto. Ma di oscuramento, per lo più. Anche se siamo all’alba di un mondo che si ricompone, e a Garda c’è chi ha sicurezze irrefrenabili su questo, ne parla volentieri al bar. Non che ci sia la consapevolezza della presunta ricomposizione ma la mancata presa di coscienza delle scissioni fà si che l’oggetto appaia più nitido e completamente intero.
 
Gravida cammina sul lungolago e tiene tra le mani una cordina allacciata, la fà girare attorno alle dita a comporre reti provvisorie che poi disgrega senza andare a fare nodi. Ha fatto una complicata mammografia qualche ora prima, e non è riuscita a spiaccicare più di qualche " è difficile qui, con lo spigolo" "abbiamo finito, vero?" "ah, ma dev’essere un macchinario nuovo" mentre l’accanita inquisitrice radiologa le manipolava le mammelle, chiedeva rilassamento tra tre porte aperte e una in piedi che non sa dove mettersi, le girava la testa contro lo schermo di plexiglas senza che nessuno sapesse bene quale posizione andava cercando, tranne lei. Che dire, un mini-stupro. Un mini-stupro da ridere, perché Gravida ne ha in mente altri più specifici, ma questo essere fatta oggetto con la scusa della diagnosi, meglio:  lo screening!, aveva una sua precisa crudità. Onore alla concretezza della medicina ufficiale, il suo distacco torrido e la sua grandiosa oggettività.
 
Gravida fatta scultura e plasmata contro l’apparecchio, un po’ appoggiata un po’ no, Gravida mezza nuda abbracciata ad almeno due bracciole bianche con le maniglie azzurre, afferrata dalle pinze, e scattata in fotografia radiante. E’ rigida, ‘sta donna, obbedisce alle richieste ma non si fa posteggiare, non le sposti le cose se non ha capito dove le metti, forse è per quello che non sta simpatica alla mammografista, farà mica tutte le sue sculture diagnostiche con questa anda? Probabilmente ci sono materiali più duttili e modellabili, magari una sessantenne col cancro al seno, certo che lei non ne può più di questo mistero male a ingropparla dentro e qualsiasi radiologa folle sarà benvenuta mentre le balla il tiprendoetelegiro sotto la lente.
 
Malati diventiamo come cose. Ecco l’oggettività dell’arte! Ecco la spiegazione precisa di tutto quello che viene fatto, le sue ragioni pienamente codificate a forza di buonsenso, la bellezza, la salute, la giustizia, la volontà, il progresso, la verginità, la forza, la vittoria, la purezza, l’integrità, l’equilibrio, la ragione, la famiglia, il matrimonio, l’istruzione, l’educazione, la moderazione, la pazienza, la tecnica, il lavoro, la misura, il profitto, l’efficacia, l’efficenza, la serietà, la sobrietà, l’esperienza, la conoscenza, la verità, il bianco, la luce, la totalità, dio.
 
E lo scultore è un buon vecchio diavolo, pensa Gravida che, al primo nodo del gioco, simpatizza.
 


 
 28/12/2005
sul più illustre paesaggio
 
 
 
 
 
Sul più illustre paesaggio
Ha passeggiato il ricordo
Col vostro passo di pantera
Sul più illustre paesaggio
Il vostro passo di velluto
E il vostro sguardo di vergine violata
Il vostro passo silenzioso come il ricordo
Affacciata al parapetto
Sull’acqua corrente
I vostri occhi forti di luce.
 

                     (fonti: Laccabue/Campana)

 
 
 
 
 

 
 28/12/2005
 
Parla bene la povera cultura, sostiene l’inevitabile verità della sua natura e la senti urlare (come sopra) quel che solo può proporre, le cose se ritornano non saranno mai le stesse per la poverina, che le vede dal basso o troppo alte e non le vuole o perde. Il loro chiudersi al suo sguardo inclinato lascia, come lascia l’amore, i gerani gelati, le parentesi vuote, la tesi scoperchiata, il cancello aperto, le analisi sballate, i bambini crescere da soli, nessun aggiornamento, i telefoni spenti, l’aloe sbindata, le lampadine insostituite, i piatti sporchi, la polvere sui ripiani, la polvere negli angoli, le incrostazioni nel cesso, i calcinacci fini degli spigoli dei muri seminascosti dal battiscopa, i frantumi dei vasetti sparpagliati, la vita di Sabri e tutte, il fegato malato, lo studio spoglio, i libri non scritti, gli incontri resi impossibili, le promesse scarnificate, le notti a scontento delirio.

Dice:

 

Santa madre degli insonni

dacci quello che la radio non dice

né può pensare, perché è figlia della

mia miseria

quella lì, è figlia di figlia di serva e facci

capire quale isola solenne perduta

ci riserva

accesa, com’è sempre, sopra il

comodino, accomoda, lei per quella

tutto l’ingombro mondo

e ce lo fa vicino e

santa, prego, cerca

di non propinare assoluti di

far star buona la sciolta coscienza

e non allearti aggressori e

non togliere, madre mossa

all’intelligenza

il suo primo valore d’uso :

al delirio solido ha consentito una traccia

permetti un’antiascesi

premetti che taccia

quest’invio.

 

 


28/12/2005
Allora ricomincia. Fatiscente.
Dove fissava la semplice pratica? Più in là.
Come riusciva a moltiplicare lo scherno? Non lo faceva sembrare possibile.
Si risolveva diritta o abbisognava curvare? Curvava spesso, ma lo faceva sembrare un diritto.
Integerrima o proseguendo sdrucciola? Proseguendo sdrucciola.
Miller la commenta e lei scrive in inglese splendido? Ogni tanto però pensa che Miller è un coglione perchè scopa male.
Un pompino la indirizzava tra le troie? Sempre stato ecchessarà mai!
Io sono fortunata e tuo fratello fa bella figura  ?  Mio beffardo amore.
Quante belle figure vale il bieco tuo?  Mio, mio beffardo amore.
Siamo ridotti al blog?   Sennò?
La solita parola composta di? Bl e og.
bl e og? era weblog, il luogo della world wise web
loging blade? parlava zoppicando
log blood?  perdeva sangue dal polso
blood gog? era sangue eternato
Hai capito dove conquisteranno domani?  era sangue eternato
Lui ha occhi di bambino dio ? era sangue eternante.
Lei (Jane Birkin) danza al Tenco come faceva per G.?  No, avevano montato il pezzo cercando di ottenere il maggior effetto di realtà vissuta dalla possibile telespettatrice intercambiata.
Tornerò mai al tempo di oggi, qui in penisola? che nevica
E la gente che scrive su qualsiasi cosa, come me, come me? che nevica
Che ne sarà del piccolo esprimersi? che nevica
Servirà da grimaldello alla fama? che nevica
E la fama avrà abbastanza cronopio a sorreggerla? mai.
E le speranze applaudiranno a piene mani? Mai, mai.
E Jannacci rinato con quel suo figlio amante? Bello essere amati.
E De Andreas mille volte amato in wiskydio? Una fine sottile.
Ed il mondo contorto, l’italietta da scena?  shhh….
Una televisione stupida inquadrata a dovere? shhh…
Una televisione subdola tracannata dal vendere? Shit.
Pasta? Fiore d’oppio, e porcellana e roccia.
Macchine? Fiore del male.
Vinello? vino, si, vino.
Parfum?  fiore d’oppio, e porcellana
Valium? e roccia
Tavor? sembra che ti culli ma poi ti vuole
Serenase? ingoiare.
Il Pinelli di turno che fa fuori l’europa?  Mai stato, i demoni li hai visti, mangiati dall’aristocrazia popolare.
Non intendo e non voglio, mi inabiliterete? si.
Mi interdirrete? si.
Le parole vere non sono belle?  Si.
Le parole belle non sono vere? SI.
L’uomo che ha la virtù non discute? Si.
L’uomo che discute non ha la virtù? si.
Essere interi nel frammento?  interi nel frammento
Dritti nel curvo? dritti nel curvo
Pieni nel vuoto? pieni nel vuoto
Intatti nella corruzione?    intatti nella corruzione
Il grave sta alla radice del lieve?  sta alla radice del lieve, alla ra-di-ce del lie-ve
Il calmo è signore del movimento disordinato?  il calmo è il signore del movimento disordinato
Per trattenere (per chiudere) fa prima estendere?  ecco, per trattenere (per chiudere) prima fai estendere
Per indebolire fa prima rafforzare?  prima rafforzare e poi saprai indebolire
All’àpice seguendo la discesa fa ascendere ciò che vuoi abbattere?  All’àpice, seguendo la discesa, fa ascendere ciò che vuoi abbattere.
Smussa l’acuto? arrotonda
Schiarisce il confuso?  chiara
Tempera l’abbagliante?   ottundi
La massima perfezione è imperfezione?   nel nodo! ho detto! (Gordio)
La massima pienezza umana è vacuità?    l’uomo che affonda il remo nel lago e lo tiene fermo
La massima dirittura umana è obliquità? il remo cade
Il massimo sapere umano è sciocchezza?  nell’acqua un piccolo gorgo.
La più alta arte umana è un balbettìo?  il gorgo ha fonde le lacrime del dio
Il moto vince il freddo (producendo calore)?  Dei chiusi sistemi.
Il riposo vince il caldo? Sto qui,
Nella sua calma e purità rettifica il mondo.  alla fine della storia.
 
 
 
 
 

 
30/11/2005 (data effettiva )
Fonti:
-Deleuze a Vincennes (1980)                                                                                                                                                                    -Kundera: L’Identità (1997)                                                                                                                                                                       -Torri del Benaco, campetto sportivo ex tennis dopo il baretto dell’autunno                                                                                                                                                                                           -Biblioteca di Costermano chiusa; i ragazzi col pallone si moltiplicano.
Non ricordo l’inizio. Ma mi pare vertesse sul (il pallone si dirige verso la mia postazione) fatto che delle cose del mondo si deve sapere per potere riuscire, realizzare-                                                                                                 Ma dovere sapere significa forse che la cosa saputa ci dirà qualcosa?                                                                                                                                                      A me non frega proprio niente di entrare nel meccanismo intellettivo della persona giusta (chiameremo persona giusta: quella che è interessata -arcanamente sottolineerei- e su questo si potrebbero condurre indagini e scrivere saggi, c’entra la politica, i meccanismi che precludono la comunicazione tra committente e commessa)                                                                                                                                                         Insomma in quanto scrivo non c’è il briciolo di previsione di marketing, non mi interessa e me lo prenderò pure nel culo ma pensare "adesso scrivo qualcosa e te lo mando, previa ricerca, guatando te e a quello che a te piace, così ci capiamo e magari pubblichiamo, filmiamo, interpretiamo, decliniamo, uno da una mano all’altro, anzi io mi paro e tu mi vedi; cercare te, chissà chi sei, chissà perché ti nascondi, chissà a che mondo appartieni e come ti sai nascondere bene visto che bisogna venire a cercarti, sul google, conoscere gli amici tuoi, scorrere gli editoriali, comprare le riviste specializzate, un occhio alle redazioni, capire il modo migliore per depositarti il plico sulla scrivania, magari -che non l’ ho fatto- supplicare qualche numero di telefono" mi lacera.                                                                                                                         Tu! Da scovare! Tu da sedurre! Che sai manovrare il detto e farlo diventare stampato e pesato e garantire, garantire per menoi che parliamo forte ma non abbiamo voce. Tu non mi interessi. Non penso mai a te, non scelgo mai come si converrebbe, il tuo meccanismo, quello di cui fai parte, non mi coinvolge; narcisismo, sarà narcisismo pure ma anche questo muove il mio scrivere e fare, e tu per me non sei nulla, mi spaventa quanto, io mando la scrittura all’elenco, quello considero, l’elenco- E nell’elenco non c’è mai il tuo nominativo, perché tu devi essere cercato. E io non ti cerco. Sei fastidioso, la tua posizione è intrisa di pretese, di genuflessioni e di sguardi sommessi, mi è capitato di incontrarti ma l’ ho fatto come la qualunque, perché dovrei essere io a dirti che ? Cos’ ho io, cos’ hai tu di assolutamente speciale. Non mi importa di te, non m’importa di me, certo.                                                                                                         Per questo, vero, quanto scrivo non vale? L’identità si costruisce con l’inferno degli altri, e senza quest’inferno l’identità occupa la zona del margine, non ha messa a fuoco alcuna, si disperde nell’incerto sovrano.                                                                                                                                                   Sono lì. Servo a delimitare un possibile, nell’arco immane del non visto ma esistito, sono un processo, nel processo, il mio non è atto definitivo e per questo vive, e nella vita, dio Spinoza, nel ragionevole non riconosciuto io vivo, nel parco del rifiuto (mio, mio rifiuto) io vivo, tu ti celebri, ma chi l’ ha detto che lo sguardo non sia tu a doverlo deviare? Sai nulla della prima morte vista?
 
 
 
 
 
 
  

 


  28/12/2005
S’impappallava Gravida su e giù per la tastiera a rettificare spazzilli e a giustificare strofe. L’ostinata. L’ostinata. L’ostinata della tabella a perfezione. Nelle cinquantasette ricopiature non una volta la gestalt si era proposta intera e un bisogno di buona forma simile a una voglia della nascita le bordava una specie di cuore.                                                                                                                                                     Quale specie di cuore? Perché ritornare sempre sul fatto? Non è dato sapere. Gravida ha semplicemente un talento sbracato e contemporaneamente anale. E’ un frattale euclide, la malinconica retta sbrofata. Si è detta ieri che non combina niente di veramente serio, nel posto in cui la serietà è quel rendere conto e aderire alla giustezza del risultato che anche per lei corrispondono ad un valore. Quindi Gravida non si sente valida. Questa creatura che compiangiamo esiste in una realtà possibile, come confutarlo?, e si sparge lì come un fluido a volte coagulato (come certi sangui) (come certe creme) e le resta vero un inventato perplesso che un po’ la corrode, dove è più intera, e un po’ la conforma, dove si sganghera. La famosa malattia mortale, l’evento al suo centro, il suo galoppante divenire, ed invece la piccola sconcia vita che non parla alla nata in questione ma la evita. Certo che sentirsi pedissequamente sbrindellata non dà una bella visione del moto arterioso, o di cose sante come quella pompa magna che in pietto palpita, avremmo bisogno di viste migliori, angeli, madonne, barbarossi, fisici nucleari dalla formula coincisa, angeli. Ma non si parano. Le ha come si hanno i concetti. Nell’organigramma dell’impilato. Accessori. Utilities. Cosine messe lì dalle quali attingere per modulare il linguacciuto linguale linguaggio. E non ci crede. Non li comprende visto che non li vede. A esser più precisi li sa in sé perché li vede al sé attorno. E’ un intorno-a-sé che non priveremo del tutto di un corrispettivo noi che la vediamo da fuori, ma Gravida è pronta a giurarcelo che non lo vede l’eroe di sempre, e che il suo cuore quadrato sbrofa, come un "tutto qui".
 
 
 
 
  

Ma si ecche ci sarà mai di nuovo da dire, che tutto è stato detto, che tutto è stato fatto, ma si ma si.  Perdere tempo davanti allo schermo muto. Su radio tre fior di cervelli dal festival di filosofia di Modena Carpi Sassuolo ad esplorare i sistemi della fantasia-immagine, pare, la fantasia indissolubilmenete legata all’immagine. E quando arriva il canadese sonoro di turno è un rumorista, un doppiatore.

A dire che il suono della fantasia è rimasto appeso al naturalismo feroce e non può accoppiarsi alla musica, che senz’altro in un festival di filosofia ancora ancora l’immagine, ma la musica, ma la musica.

E’ delicata, vede. Ha le sue zone di potere, inattaccabili, vede. La siae, conosce il mostro? Ma conosce, porc’, ella, la via della catalogazione del potere cultural-artistico, o parlo con l’ennesima scuffietta deficente che gira per il mondo, dicevamo,  non conoscendo il suo potenziale velinume?

No perché, dire "ma guardi che in Inghilterra non quaglia", veda. A parte che l’Inghilterra non esiste. Dica Regno Unito, che fa più bella figura.

Guardi, nemmeno altrove, molli l’osso. Non esiste che lei venga qui a dirmi che il mondo è più elastico, più bellillo, più integrato, più sganasciante, più divertito. Non tiene, non funziona.

Che il mondo non significa niente, quello che significa, e domandi anche a loro, è quello che Ciccio Laspide detto "la storia del mondo culturale italiano" decide oggi per me. E oggi decide che è così, che giriamo. E che la musica non si mischia con il sonoro, con la sacr’arte del doppiaggio, e che se scrivo devo scrive i gialloneri, e che se faccio arte figurativa impicco i bambini e vado a Beijing, che se scrivo faccio due copie per Crocetti.

Insomma, la fantasia, la povera! E su rete cinque, qual canale, la bella matura napoletana che duetta con Bracchetti ingenioso, e son macchiette stilizzate, accattamenti. Provinciali boutades che andranno dove? Ah! Nell’emisfero del provinciale esposto.

Come tutte le belle voci e le belle speranze che ho sentite incapucciate da un sistema, anche grande, anche costoso!, che le copta per due lire d’audience e le manda al massacro comunicativo. La Farm gli Amici. Le radio anch’Io. Sappiamo.

Ma non c’è niente che freni la terribile bugia, serve a restare, del non aver più nulla da dire, ma proprio più nulla da dire, forse dall’Ariosto, forse da Modigliani, niente, più assolutamente niente, nessuna esperienza del mondo, nessuna immigrazione cospicua, nessuna cultura autonoma contemporanea, traduzioni su traduzioni, anche malfatte, di americani su americani, gente brava, russi, ucraini, mondo, kazaki, tagaki, israeliani, mondo, arabi, turchi, finlandesi, filippini che reinventano il cinema,  belgi del belgio che si spacca, quebecchesi, meravigliosi quebecchesi che sfrigolano, "nuova letteratura canadese", ah!, nuova, ma lo conoscete Bellow, o dobbiamo stare ancora qui a parlare di Dante?

Dante una pippa. Siamo aggrovigliati nel modo peggiore alle nostre istituzioni arcaiche, e cosa riformi, il narcisismo? Il sentimento di inferiorità? Il vuoto? Grazie a dio il nostro papa tedesco ha ancora qualcosa, del suo cementato ardire, monoteistico e zicuro, ma noi? Operai della scienza, questo si, e poi più niente. Sono i francesi a parlare dell’India. E gli statunitensi a disfare e rifare la psicanalisi. E gli slavi a fare la poesia. E quelli che adesso Tiblisi diventerà un forno a portare avanti la sociologia, sono gli Spagnoli a provare l’architettura e ad impugnare le città, e sono gli inglesi, tanto per cambiare, a dare senso pulsante alle nascite. Ma tanto.  Non è la merda Nazione che volevo discutere.

E’ la merda Stato d’Italia, il suo fragore insopportabile, romanicatafalchi dappertutto, stronzate come se piovesse, nessun discorso, colonia d’america e quattro che ci provano ma il suono è sgonfio.

E non mi chiederete mai di ringraziare qualcuno, questo è sicuro porci, che la bellezza e lo spessore li ho trovati da me.

Diglielo, Sabrina.

 

Il cielo sbatte come dondola. Quelle nuvole pesissime (koch) s’impiccano all’azzuro e restituiscono chiarezza e patinatura all’insieme del quadro dal parabrezza scheggiato mentre arrivi senza fretta a Caprino, con la tua bella coda dietro (paola) e con il mondo baldo in cuore, giuliva e cupa angiolina sgravata da poco.

La grandine ha spaccato il mais e tutti i butti del vino. Come dire che faremo senza eucaristia, senzafede ; la Sgravata parla mentre guida e mentre pensa a questo, lo Scultore ascolta ma non ascolta [dice che è bello farsi portare (battisti)] e prova tutti i pulsanti del cruscotto, tira su e giù i finestrini elettrici, fa così insomma.

Ora una tirata sui film che propone Ghezzi alle tipo due del mattino in questi adesso umidi settembri deve per forza trasmettere l’impulso al movimento, uno qualunque. A lei però interessa: ieri sera. Non avevano ancora finito di distruggere il casotto alle cinque e ventidue. Heremias.

E s’incanta davanti a questa scoperta, che un’immagine che dura da venti minuti praticamente ferma, ma siamo disabituati, si muovono solo le foglie davanti e sembra che parlino loro, col vento ecco, ferma è ferma, si, ogni tre, quattro minuti c’è un leggerissimo cambiamento d’inquadratura, impercettibile, che l’immagine quasi ferma produca movimento interno.

C’è il matto che guarda da fuori, dopo un’ora e un quarto che l’hai guardato tu. E’ lui ora che guarda te, dietro il reticolato, nel boschetto filippino, vede arrivare le macchine le biciclette e le bufale e i ragazzini senza gli ombrelli, poi quelli sull’auto che scendono e spaccano. Mezz’ora di piscio sputo bomboletta merde birra pastiglie fumo giravolte, un youtube da dietro il filo del bosco, il bullo sporcaccione e il matto che lo guarda, la sospensione dentro, una fanciullezza estrema sciolta in acido (impressioni) ma la sospensione dentro.

E’ la realtà che scorre e segue il tempo che passa e non s’inventa storie. E’ quello che succede senza costruzione di nessi, quando davanti è morbido e tangibile e nessuno è il riferimento, ma lascia stare la perdita di punti fissi sovrastrutturale e il suo lamento, appunto! Nessun riferimento, tu nel mondo che si lascia acchiappare o guardare e tu guardato e acchiappato, la cinepresa come cosa semifissa , nessuna scrittura.

Lav Diaz, autore di Heremias, Filippine 2006, 660 minuti.

 


 

A rigor di cronaca aggiungo: (quanta bella roba!)

il manifesto del 10 Settembre 2008
IL FILM · «Melancholia» dalla durata impossibile, firmata da Lav Diaz
Tra rovine psichiche e estasi, i ribelli filippini che ipnotizzano
Rinaldo Censi
Venezia

Più ci si pensa e più appare curiosa la metamorfosi di Lav Diaz, questo piccolo cineasta dalla lunga criniera, un guitar hero ossessionato dal feedback , qualcuno che ha mosso i primi passi nel cinema commerciale filippino realizzando film pito-pito , produzioni low budget, girate e montante nel giro di due settimane, per poi giungere a realizzare magnifici corpus filmici dalla durata impossibile: veri e propri flussi visivi capaci di captare i magmatici movimenti dell’anima che riverberano e si materializzano nel suo paese, le Filippine. In Batang West Side (2002), le ore di proiezione sono solo cinque, per una detection incentrata sulla pulsione migratoria dei filippini verso gli Stati Uniti. Nel 2005 appare quello che avrebbe dovuto essere il suo primo film: Evolution of a Filippino Family , progetto decennale e fluviale: undici ore e mezza per ricostruire e incantare, raccontando le vicende dolorose di una famiglia filippina e, dietro a queste, quelle di un intero paese. Vengono poi Heremias (2006), il tellurico Death in the Land of Encantos (2007), 540 minuti in cui la bellezza e l’orrore convivono, fanno cordata, insinuandosi insieme alla piccola camera digitale di Diaz nella zona di Bicol, est Filippine, colpita da un tifone. Filmato in bianco e nero, Melancholia ipnotizza, spiazza per le sue invenzioni: è un film politico, per questo urgente. Bene ha fatto dunque la giuria della sezione Orizzonti capitanata da Chantal Akerman a premiarlo come miglior lavoro di finzione. Dietro la storia di una persecuzione politica (il regime filippino e la pulizia etnica dei suoi elementi considerati sovversivi, specie se comunisti) si muove un organismo complesso, una specie di fiore, una pianta esotica in perenne germoglio, che muta forma, specie, conformazione. Un film filippino di otto ore può interessare? Più o meno di un film etiope? Altra questione urgente, su cui sarebbe il caso di riflettere. Non ora, però. Nessuna polemica può smorzare la forza, il magnetismo che questo organismo in movimento sprigiona. Assassini politici, dunque. E una strana forma di malinconia che affetta gli abitanti del paese: accidia, demoni atrabiliari. Senso di abbandono. Se parlavamo di organismo, è perché Melancholia lascia crescere un possente sistema che oscilla tra la microstoria di tre attivisti in un movimento rivoluzionario, ora in clandestinità sull’isola di Sagada, e quella macro, espansa, che riguarda un intero paese. La persecuzione, il senso di oppressione e minaccia, da una parte. Dall’altra la malinconia. Due strutture comunicanti? «Quando abbiamo infine messo piede a Sagada, in un giorno freddissimo, ho compreso che la mia storia doveva avere a che vedere con la malinconia, la tristezza profonda, il dolore, la solitudine. E poi, il personaggio di Julian Tomas è arrivato, insieme al suo radicale processo per la cura della malinconia attraverso l’immersione in un personaggio», afferma Lav Diaz. Basta una sola inquadratura del film per assecondare quello che somiglia ad un invito. È il tempo necessario perché il nostro respiro, il nostro organismo entri, si acclimati a quello di questa pianta colossale, in modo da trovare la medesima respirazione, immergendosi nel flusso delle lunghe inquadrature. Lo stupore verrà dopo, insieme alla sorpresa. Ci vogliono almeno tre ore di proiezione per afferrare e apprezzare in pieno lo svelamento che permette al film di mutare forma davanti ai nostri occhi. Sono tre ore spese bene. Quella che sembra la storia di una prostituta, di una suora e di un magnaccia, si schiude improvvisamente davanti ai nostri occhi. Salta l’immedesimazione con le sorti dei personaggi. Perché qui non ci sono personaggi, ma solo figure mobili, processi di immersione che si interrompono. Questo prevede la cura professata dallo scrittore Julian Tomas, fissata sulle pagine di un libro intitolato appunto Melancholia . Fragranza della pura invenzione cinematografica: la discesa in uno stato di ipnosi vigile, puntellata da scarti improvvisi, sviamenti, momenti di puro inabissamento narrativo e sensoriale. Melancholia è un film in stato di grazia, dove si commercia con i propri fantasmi; un film fatto di improvvise estasi, ricordi indelebili, storie terribili e rovine psichiche: una donna che canta nella giungla, un uomo braccato, sul bordo di un fiume, che strappa le pagine di un diario, sotto la pioggia persistente. Le onde del mare. La maestosa bellezza di queste immagini, l’orrore per ciò che è scomparso, o sepolto: un teschio che emerge dal terreno. Questo film è un lungo e maestoso riverbero, simile a quello distorto che emerge dalla chitarra dello stesso regista Diaz in una sequenza del film. Il caos sonoro, la dissonanza, la materia sonica: il dolore e l’insensatezza trovano qui un’improvvisa forma di emersione. O una valvola di sfogo?

Era il cane a cui avevano tagliato le canne.

Era l’osseto il ceceno l’afgano impelagati.

Era la musica di ritorno del quarto d’ora di gloria.

Era l’eroina mischiata di a un bel rave giocare.

Era la cangiante struttura dell’apocrifo ratto.

Era il sempre nel mezzogiorno dell’indice.

Era il bisogno d’uno e solo, d’uno e solo, duro.

Era il cuoco di Salò che prepara la pasta alle lucciole.

Era la morte vera con le zanne di fuore.

Era la morte, vera, senza niente da dire.

Erano entrambe: la solita cosa che potentemente affiora dalla palla quieta del vivere.

Era il dio buttafuoco.

Era la dea corona.

Era la bellezza bambina.

Era la porca matrona che la divora.

Era che il porco è uno e abita dentro la bellina.

Era che il diavolo sbrana per chi vorrebbe, mille operosetti ogni mattina.

Era la rima, a fare il verso alla mannaia delle madri.

Erano le madri inginocchiate ardenti.

Era il pregare la distruzione degli altari degli altri.

Era sbattere il pugno sulle tavole dei denti.

Erano i denti di chi ci aveva mangiato l’amore.

Era l’amore che ci aveva dato qualcosa da succhiare.

Era quel latte buono solo per noi rosellini porcelli.

Era prima di tutto, era sempre, era il dio dei furori.

Era il cane degli altri che abbaia la notte di fuori.